IL NOME DELLE COSE – 10. La paura, la notte, il bosco, tutto quel che resta

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(Foto di Rachel Claire da Pexels)
Cos’è la paura lo scopri andando di notte nel bosco.
Da solo o con un amico.
I rumori nel buio, i piccoli schiocchi secchi a cui non ci si abitua. Un rumore lontano e distante, una luce nel buio.
Il nero della notte. E le stelle a fare da contrappunto poco rincuorante.
Quando cammini nel bosco di notte sei solo tu e il rumore delle pietre secche sotto le suole delle scarpe.
Solo tu e il fiato che manca.
Solo tu e il bastone di legno a bordo sentiero, del quale ti accorgi in maniera ancestrale, un pensiero che arriva dai primordi del tuo cervello-mammifero in grado di salvarti all’occorrenza.
Dall’attacco di un cinghiale femmina che stia facendo attraversare un fosso ai piccoli, un orso a cui hai dato fastidio mentre si sfregava la grande schiena alla corteccia di un albero.
Ma non hai paura di questo, no.
Ciò di cui hai paura è l’inconfessabile.
Quello che non hai mai avuto coraggio di dirti, per vergogna o circuizione di intenti. Per ritardo cronico con la verità, la vertigine del pronunciarla.
La paura assume volti diversi a seconda di chi la osserva.
Il pazzo con la motosega nel bosco.
Non l’avevo mai nemmeno considerato finché le pietre sotto le scarpe sono state le mie.
Il fiato condensato, tutti i sensi all’erta, e la luna lassù, inerte, un disco piatto e diafano a osservare languida la sorte effimera dei giovani uomini di questo pianeta.
Andare nel bosco di notte. Dovrebbero insegnarlo nelle scuole. Farlo imparare nei corsi di scrittura creativa. Donarlo come ultimo atto alle compagnie teatrali.
Non la paura. E nemmeno come superarla. Ma dove camminare per affrontarla.
Non è il potere della Nature prescription che in Scozia, nelle Shetland, così come in Giappone con lo Shinrin-yoku, ma ancor prima Ippocrate, prescrivevano cure alle persone per evitare ansia, difficoltà respiratorie, ipertensione, diabete.
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(Foto di Matthew DeVries da Pexels)
Camminare nelle foreste come atto di riappropriazione del selvatico. La capacità di attecchire pensieri nel silenzio. La restituzione di un’evidenza emotiva.
Avere paura pura. La propria.
Abituarsi alla non rimozione, l’esatto contrario a cui l’Occidente negli ultimi anni, secoli, si è abituato.
Evitare, rimuovere, far finta di niente, continuare ad andare avanti anche se i segnali dicono il contrario.
Abbiamo fatto così con i livelli di inquinamento dell’aria, ignorando per decenni le statistiche e i dati dello studio Limits to Growth commissionati dal Club di Roma già nel millenovecentosettantadue, o delle associazioni ambientaliste bollate come naïf, quando non pericolose (qui l’articolo completo del 2019 per i 50 anni dal rapporto scritto per laStampa).
“L’uomo è ciò che mangia”, Ludwig Feuerbach: “La teoria degli alimenti è di grande importanza etica e politica. I cibi si trasformano in sangue, il sangue in cuore e cervello; in materia di pensieri e di sentimenti. L’alimento umano è il fondamento della cultura e del sentimento. Se volete far migliore il popolo, in luogo di declamazioni contro il peccato, dategli un’alimentazione migliore”.
Quanto sarebbe applicabile oggi, alla nostra società.
Ma la paura non salva dal mondo. Per quello c’è l’estinzionismo e il fatto, ormai acclarato, della diminuzione della capacità riproduttiva degli spermatozoi da cinquant’anni a questa parte.
Il futuro una possibilità in vitro.
Quel che resta del nostro domani, un vetrino sul quale imprimere speranze.
Nemmeno più al fondo di un vaso rotto da una sciocca ragazza curiosa.
La paura di non sopravvivere.
O di poterlo fare, e vedere la fine di tutto.
Lo squarcio tellurico che inghiottisca non tanto noi, ma i nostri figli: guardare i loro occhi scendere fin dentro le viscere dell’inferno mentre tutto crolla per la nostra stupidità.
Lo schianto indicibile di un orrore senza fine. Lo squarcio nel ventre del nostro esistere. Piegati in due dal dolore.
La razza umana condannata a essere se stessa.
Nemesi del principio del chi orientale.
Il bosco metafora di una scelta e due strade, di fronte alle quali ci troviamo e di cui solo una, sappiamo, non sappiamo, porterà al sentiero della salvezza. Benedetto Croce: “L’errore parla con doppia voce, una delle quali afferma il falso, ma l’altra lo smentisce”. O il paradosso di Monty Hall: la vita non è che un viaggio basato su logiche controintuitive, delle quali la paura è solo un’antinomia vantaggiosa per alcuni, intollerabile per altri.
Saremo in grado di reggere alla forza di una rivelazione? Riusciremmo ad assorbirne l’onda d’urto?
Questa la vera domanda.
Perché il bosco di notte ti guarda dentro.
Il buio ti prende dove non sai nemmeno di essere scoperto. Due volte.
Scoperto nel senso che ti fa vedere aspetti che non avevi considerato, ti porta a conoscere territori inesplorati, verso i quali sei impreparato, ignaro delle azioni così come delle conseguenze, sprovvisto persino del minimo bagaglio linguistico che ti permetterebbe di non essere sbranato. Hic sunt leones.
Ma è solo l’uomo a essere lupo per l’(altro) uomo.
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E poi perché ti mette in condizione di vergogna. Ti scopriranno. Gli altri, vedranno chi sei.
Quello che hai sepolto, scordato, seppellito sotto tonnellate di giustificazioni, misurini di incapacità, metri di corda in casa dell’impiccato. E tutto per non vedere.
Preferiamo non dirci la verità che sostenere il peso delle sue conseguenze.
È umano.
Ma anche la paura lo è.
Solo che il buio non gioca pulito. E non ha mezze misure.
Al nero d’inchiostro della notte nel bosco associ colori e odori che non sapevi. Senti movimenti anche dove non ci sono.
Il buio confonde e premonisce. È un baratro con il prossimo futuro, un baratto con il mondo dell’ombra.
Ti spingi ad andare avanti solo per non darti del codardo, ma la notte non è fatta per essere esposti quando non sei dotato di artigli e zanne.
Prometeo decise di rubare il fuoco agli dèi per donarlo agli uomini. Per questo venne punito, condannato a essere divorato nelle viscere dall’aquila impietosa.
L’uomo è un impostore. E il buio l’aquila che viene a ghermire l’immondo pasto che egli ha ingoiato. Tirarlo fuori con gli artigli, e il fuoco sottratto.
Fuochi nella notte. Bagliori di salvezza.
Da soli nel bosco di notte non c’è salvezza. Solo contare respiri prima che qualcuno dica: “Torniamo indietro”.
E allora lì, nel crepitio di pietre sotto le suole delle scarpe, nel bagliore che segue lo sguardo sotto la luna, mentre getti via il bastone pensando: “Che sciocco, non c’è nessuna fine del mondo, poiché non c’è stato nessun principio”, solo in quell’istante avverti il tonfo sordo dietro di te e ti volti scrutando la notte senza volto. Che quindi li ha potenzialmente tutti.
Tutti i nomi che non hai più avuto il coraggio di pronunciare.
Tutte le rese incondizionate. Gli abiti dismessi. Le verità taciute. Le bugie. Gli scheletri nell’armadio e gli spettri allo specchio. Il volto distorto che ci portiamo appresso quando non c’è maschera, e si rivela nel vino la verità, così come affacciati al baratro dell’ultimo istante di vita cosciente. Quando nient’altro conta. Se non l’espiazione.
Cosa resta di noi, dopo il giorno.
Passi nel buio. Passi dispersi e senza convinzione. Senza sapere se vivremo o verremo attaccati, se vedremo due volpi correre insieme rifugiarsi nel folto, in mezzo a rovi di more e spine.
Cos’è la paura se non il rimosso in attesa di emersione.
La paura è un’isola sprofondata da far riemergere in superficie.
Un confronto che spesso fuggiamo, non per vacuità quanto per mancanza sgominare il senso di inadeguatezza di cui siamo vittime e complici.
Andare nel bosco di notte è guardarsi dentro. E dare un volto a parole che avevamo deciso di non pronunciare.
Riuscire a tenere il peso, l’incudine di quel fonema recalcitrante e segreto.
Limitare i danni con il proprio esiguo tempo a disposizione, però. Perché ogni ammissione di colpevolezza è sollievo.
Ogni paura pronunciata un passo verso la libertà dei passi.
Il camminare davanti una porta chiusa, fantasmi sotto forma di teli dentro case vuote, disperse al crocicchio tra confini inesistenti, sotto calanchi di sabbia e polvere di esistenze in cerca di altre parole ancora.
Sangue ghiacciato dentro la schiena.
Cosa o chi siamo lo conosciamo solo guardando in faccia le paure.
Lì capiremo quale la reazione e quanto il disprezzo. E però anche, allora, la nostra risposta all’invocazione.
Se guardare in faccia è il volto.
Se guardare è il volto di ciò che ci siamo nascosti.
Allora l’ombra va sgominata. Rincorsa attraverso i mari, perfino a bordo di una zattera instabile, un barchino alla mercé di squali e maremoti.
Il demone-ombra la personificazione di un potere che non eravamo ancora in grado di gestire ma che, se vogliamo sopravvivere, dobbiamo imparare quantomeno a riconoscere come una nostra creatura.
Immaginario, immagine speculare, doppelgänger che, attraverso il tempo e lo spazio, dobbiamo stanare dalla non-dimensione di una realtà edulcorata.
I giorni che educhiamo alla menzogna vera, quella per cui il giudizio su di noi è sempre rimandato.
Andare nel bosco di notte è scovare le ombre sotto le pietre, vedere il tronco dell’albero dell’impiccato.
Tracciare le linee del sentiero percorso.
Nel bosco di notte ad affrontare paure.
Da soli.
Per questo andrebbe insegnato da piccoli, riproposto da grandi.
Per imparare la portata diversa del concetto di paura a venti, a trenta, a ottant’anni.
Ogni età ha un volto diverso.
E in mezzo il bosco da affrontare nella notte.
Ogni passo, uno sforzo verso la capacità di ingoiare aria e commutarla in gesto. Non dimenticando il buio ma imparando a esercitarsi a respirare.
Azione che sollevi l’arto lungo dalla polvere dei giorni, e di lì si propaghi al tronco e al collo, la gola che inghiottisca saliva e, contemporaneamente, azioni, cellule, ricordi, finché a ogni passo la ripetizione ci avvicini alla schiusura dell’unica parola, libertà.
Saliva come acqua del mare dentro che si commuti in ossigeno e aria nei polmoni, e di qui vada al sangue, a diluirsi nei muscoli. Fino al passo successivo.
Un uomo in rivolta, direbbe Albert Camus.
Niente di più. Niente di meno.
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