IL NOME DELLE COSE – 9. Chi ha perso lo sa

Ho scritto il testo che segue un po’ di tempo fa.
Ieri ho appreso la morte di un autore che conoscevo solo di nome, il cui destino mi ha fatto riflettere ulteriormente sullo strano mestiere di vivere.
Questo post senza altre immagini è in memoriam di Vitaliano Trevisan.
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Che un conto è perdere, aver assunto dentro di sé la perdita, e per questo aver mollato, o deciso la rinuncia.
Un conto è contemplare la perdita. La possibilità di poter perdere. Ma lo stesso, anzi per questo, ingaggiare battaglia.
Siamo figli di una generazione che ha sperperato.
Non siamo figli della borghesia illuminata.
Accolita dei rancorosi. Mal gestita, mal vestita, poco incline. Restati umili, anche se non serviva.
Che abbiamo detto, Mi scusi, Prego, vergognandoci a ogni piè sospinto per ogni decisione presa, fallita, agita, in nome e per conto di una possibilità che in verità non doveva esserci nemmeno concessa.
Perdenti. Nemmeno così cool da poterne fare vanto, o bandiera nel dolore.
Silenziosi, per lo più, retti da uno strano, ispessito, destino auto-imposto di perseveranza irrequieta.
Ci meriteremmo di finire tutti in un ospizio per perdenti. Ma non esiste.Un luogo sperduto, minore, non il simulacro della grandeur dei tanti personaggi famosi resi eterni da edifici che li commemorano. Piuttosto un ospizio semplice, bianco, con un grande cancello davanti e le sbarre di metallo, due ali laterali e le scale di marmo. Infermieri bravi e capaci, infermiere carine nei modi e nell’aspetto.
Ci finirebbe dentro il musicista che non sente più la musica.
Lo scrittore alle prese con un blocco che dura da cinque anni.
La pittrice malata di disillusione, la poetessa pazza, il ragazzo senza disturbi della personalità ma con molte chiavi legate alla cintura e uno stereo immaginifico collegato alle sue orecchie, il cavo staccato. E dentro il suono del Creato.
Sarebbe un ospizio dove ci sarebbero fiori profumati rosa e gialli. E cespugli dietro i quali ci si potrebbe nascondere.
Il musicista rivedrebbe il volto delle persone che ha perso, il trauma che lo trascinò nel baratro del mondo senza suono.
Lo scrittore, un bel giovane di quarant’anni, piegato dalla mancanza di riconoscimento, di spessore, liquidato come l’ultimo fra gli ultimi in cui la mediocrazia rende migliori gli adeguati, i servili.
“Tre di tre! La mischia gaia di vipere”, voce carta vetrata, Cristiano Godano, chitarra e penna dei Marlene Kuntz.
Ma lei sarebbe lì, ne sono convinto. La pittrice, sopra la collinetta proprio di fronte all’ospizio per artisti.
I perdenti.
E lei alle prese col vento come la giovane sposa dell’ingegnere che inventò gli Zero, aerei giapponesi della Seconda guerra mondiale. La ragazza dai modi gentili e i capelli lunghi, le parole dette piano per non disturbare. Addio.
Lei sarebbe con il suo cavalletto a tentare, ancora e ancora, di riprendere il filo rosso del mondo.
A ogni tono un colore.
Per ogni figura un oggetto e una forma.
La restituzione del reale attraverso l’arte. In ogni caso un’alterazione in attesa di essere esibita.
I pennelli intinti nell’acqua, il rumore lieve delle setole su carta. Lo sbaffo liquido del colore sul foglio bianco.
Cosa farne.
Di un foglio bianco.
Cosa farsene della libertà.
Gli ospiti della Casa di cura per artisti falliti se lo domanderebbe. Non con seminari, piuttosto con incontri informali.
Alcolisti Anonimi recalcitranti, contrari allo spirito di gruppo, ognuno perso dietro al proprio insormontabile demone.
Eppure.
L’effetto dei sedativi o della comunità.
A un certo punto il musicista inizierebbe a ballare, il pittore balbuziente a parlare in esperanto, la pittrice, bella come non mai si innamorerebbe del pianista ormai cieco, in sedia a rotelle, tanto per dimostrare che la bellezza è nella riconoscenza. Nell’attenzione e nella concessione a poter provare emozioni.
La stessa consapevolezza di chi ha perso.
L’uso delle gambe.
Gli occhi.
Chi ha subìto l’amputazione.
Genitori di figli autistici, paraplegici, affetti dalla sindrome di Down. Quanta fatica. Quanto impegno. Quanta resistenza. Quanto amore. Questa parola buonista in tempi feroci e artatamente scorretti.
La società che ti guarda e osserva, compatisce o indifferente si gira.
Chi ha perso lo sa.
Che una parte di sé non si ricostituirà mai più.
Forse è per questo che la poesia è per i pazzi, e i mancati.
Esseri umani a pezzi. Parti di sé per milione.
Zone inaccesse a chi ha vinto, a chi non concepisce la sconfitta.
Quando perdi impari il senso della sconfitta. La tristezza dell’insuccesso. La pioggia dell’animo diviene malinconia e attenzione.
Quando abbassi gli occhi a terra ti accorgi della presenza delle cose, gli oggetti, degli altri.
Gli ultimi non sono deboli, così come non lo sono gli umili. È una questione di comprensione.
Chi perde vede il lato nascosto.
Alza il velo sull’apparire.
Chi accetta la possibilità del perdere decide di assumere la possibilità del vuoto, il peso, Atlante che regga le sorti e il destino. E non conta che sia, per uno, anche uno soltanto.
Importa come chiami le cose.
La verità che si cela dietro ogni sconfitta.
La malinconia è abbassare le difese, prendere in viso tutta la vastità del mondo.
Abbattere i muri che edifica la società e, così, distruggere lo strutturato esibito, l’impalcatura smontabile delle percezioni altrui, il giudizio che grava sulle nostre teste, tutte, e che ci disabitua allora a dire la verità per paura di non piacere.
Avere il coraggio delle proprie posizioni.
Scegliere da che parte stare.
Whose side are you on?
Stare da quale parte.
Di chi osserva i giorni dal basso.
Chi si ostina a rinforzare le braccia.
Piangere.
Ridere.
Avvertire il brivido elettrico dietro, e dentro, la colonna vertebrale. Lungo l’orecchio e il collo, deglutire mentre il buco allo stomaco ma tu, lo stesso, sorridi, anche se il volto di chi guardi non saprà mai più che colore ha il tuo sguardo.
Non ti riconoscerà più.
I pensieri, poi, chissà dove finiscono?
Se esistesse l’ospizio per ex scrittori potremmo chiedere.
Perché? La domanda che le racchiude tutte.
Perché ci ostiniamo? Giorni tirati per i capelli. Ottenere consenso, risultati, posizioni, certezze solide come case di paglia.
Invece, accettare la fallibilità, la debolezza. Disimparare lo sguardo insolente dei vincenti.
Cercare di capire quale verità siamo. Senza mediazioni, perché quelle sì sarebbero sconfitte, individuali (perché non sarai mai più contento) e sociali (una comunità di insoddisfatti è pericolosa).
Nessun compiacimento, nessuna adesione né ritorno di convenienza. Non sentirsi abbastanza. La delicatezza del sobbalzo nel cuore. Vedere lo sbocciare di un ulivo, ascoltare il clacson di una macchina a distanza, e domandarsi chi sarà, quale vita farà, che storia c’è dietro, come le luci nelle case che osservavo di notte per non impazzire. Un periodo della vita in cui la realtà era storta e i volti delle persone grugni di animali.
Stati di alterazione percettiva, li chiama Oliver Sacks, Allucinazioni. Ci spaventiamo ma poi facciamo di tutto per scordarlo. E invece no. Il compito non è rimuovere, che pure sarebbe più comodo, o insultare e sbraitare, picchiare anziché ascoltare.
Chiedersi come Atticus Finch, “Mettersi nei panni degli altri, signorina Scout”. To Kill a Mockingbird.
Perché, se lo insegni, come fai anche solo a pensarlo di uccidere un usignolo?
Poco tempo fa è morto un barbone lungo una delle vie più trafficate dietro casa mia.
Era bielorusso, o forse ucraino. Un signore gentile, che parlava italiano, un poco di francese, con la barba ingrigita e gli abiti puliti, gliene portavo a ogni cambio stagione.
Poco prima che morisse, era in primavera, mi aveva raccontato che aveva combattuto nei Balcani. Gli occhi buoni e neri si erano gonfiati di lacrime. Avevo chiesto della sua terra, se gli mancava: «Mia sorella», aveva risposto un secondo prima di non dire più niente. Ammutolire, per non piegarsi definitivamente ai giorni.
Poco prima di andare via mi aveva guardato negli occhi, il peso di un animale braccato: «Qualche volta mi porti da mangiare qualcosa di caldo, che cucini per te e la tua famiglia?».
Gli avevo risposto di sì.
Invece non ho mai trovato il tempo.
Il giorno che l’hanno portato via con l’ambulanza io non c’ero.
Adesso quel corpo non sarà più al sole d’inverno, per strada a gonfiarsi di vino per non ricordare.
Io gli avevo detto sì, con sufficienza. E lui sapeva sarebbe successo.
Che le sue parole sarebbero state buone solo per il vento.
Il buco allo stomaco.
Questo senso di sconfitta umana.
Persone per strada di cui non sapremo mai il nome.
La verità dei corpi.
Pieghe di quell’essere umano.
Che potrebbe essere.
Chiunque di noi.