Cambogia reportage blogdiary 1


Era da anni che volevo vedere i templi e le città foresta foresta dei Khmer.
Sono partito da Milano il 7 dicembre per Hong Kong, via Bangkok, fino a Siem Reap dove sorge il più grande complesso di templi della Cambogia, Angkor Wat (si pronuncia, uàt) e Angkor Thom, la capitale dei khmer, che andremo a visitare domani.
Prima di arrivare a descrivere l’aria calma, e calda (è estate, 24°C di sera, il giorno si sfiorano i 34° con un tasso di umidità piuttosto alto) prima di raccontare l’emozione di vedere i templi ancora due parole sull’atteggiamento degli abitanti.

Ieri sera dopo 3 cambi e qualche ora di ritardo sul volo – del resto, la Cambogia è piuttosto verso l’Australia sul globo – nonostante la stanchezza, l’autista a cui si è “spento” il motorino mentre mi veniva a prendere in aeroporto mi ha lasciato a un altro autista, altrettanto pacato e gentile, che ha fatto 50 km dall’aeroporto all’albergo, all’accoglienza in albergo mani giunte e profumo d’incenso, succo al green mango, e così si recuperano 27 ore di aereo.

La mattina sveglia alle 7 colazione, frutta e patate arrosto, pane tostato e marmellata. Il grand tour dei templi che prevede: Srah Srang (The Royal’s Basin), Banteay Kdei, Ta Keo, Preah Khan (Royal Sword), Neak Pean (Coiled Serpents), Ta Som e East Mebon.

Costruiti in arenaria e tufo, aranciato, spesso verde a causa della fitta vegetazione, i primi templi risalgono al I-VIII secolo, l’epoca dei khmer è quella che va invece dal IX secolo fino al XV secolo.
Nella foresta le liane si intrecciano, forze tiranti della natura, ai blocchi di pietra enormi trascinati attraverso dei fori praticati sui massi da grandi elefanti.

Tra il 1863 e il 1953 la Cambogia fu colonia francese, furono i restauratori francesi a rimettere in piedi alcuni di questi templi che hanno conosciuto, dopo gli anni dell’edificazione – l’epoca dei grandi re e degli dèi – periodi di guerra: dall’Indocina ai khmer rossi di Pol Pot.

Eppure, come monoliti, i templi sono rimasti: 201 su una superficie di poco più di 400 kmq: alcuni di questi sono buddisti, altri induisti, altri ancora opera del sincretismo in grado di costruire verso l’alto (gli induisti, dove tutto richiama la montagna sacra, l’Himalaya) oppure dei veri e propri labirinti dagli scorci suggestivi dove l’opera dell’uomo si fonde con la terra, e l’acqua, e il profumo degli incensi che brucia e purifica l’aria.

Per la strada, nei villaggi di case su palafitte, i bambini giocano per strada, ogni scorcio è un’immagine dove non voglio fare foto, per non rovinare la realtà e sostenere l’incanto della vista. Un esercizio di memoria, essere qui come educazione alla bellezza. Una donna porta le mucche al pascolo, poi il pomeriggio lascia i colori del giorno, il rosa arancio cede il posto al blu.

Devo elaborare ancora tutto il (già) visto in appena un giorno. Un punto di spazio senza tempo, un innesto di pietra e alberi, silenzio e questo odore della Cambogia che non ho ancora identificato, ma che sa d’aria leggera.