Capitalocene o l’Antropocene dell’industrializzazione selvaggia


11 settembre, Seveso, Chernobyl. Esiste una relazione fra disastri ambientali e capitalismo?
Se ne può uscire? Traccia un quadro di sintesi con il suo pamphlet, L’accendino dell’Antropocene (Armillaria, €12) Alfonso Pinto, geografo, ricercatore, documentarista, dell’Ecole Urbaine de Lyon – Université de Lyon.
Se la matrice dei disastri industriali è sempre “colpa” dell’uomo, c’entra anche Rousseau, sostiene Pinto: «Le origini dell’Antropocene sono legate alle rivoluzioni industriali del XIX secolo, al momento in cui ai rischi “naturali” si aggiungono quelli legati al mondo della produzione di beni ed energia». Il disastro così: «diventa inevitabilmente un fatto sociale, dal quale è sempre più difficile separare la matrice antropica. Rousseau aveva intuito questo passaggio nel XVIII secolo, rispondendo a Voltaire nella querelle a proposito del terremoto di Lisbona del 1755.
Se è vero che non fu l’uomo a far tremare la terra, è pur vero che la maggior parte delle conseguenze tragiche di quell’avvenimento furono dovute a scelte di matrice antropica: urbanizzazione dissennata, densità urbana, ecc. il filosofo inaugura l’età delle (ir)responsabilità umane, età nella quale il fattore sociale della catastrofe diventerà una delle chiavi di lettura principale dell’avvenimento», un ragionamento profetico: «L’avvento dei rischi industriali – continua il geografo – non farà altro che confermare la sua intuizione.

Non è più tempo, come scriveva Voltaire, di riflettere sul significato dell’azione divina e/o della natura, ma il pieno compimento del percorso iniziato con il Rinascimento, che mise al centro l’uomo e le sue creazioni. Non a caso, nel XIX secolo Goethe, scriverà che con Voltaire finisce un mondo, mentre con Rousseau ne inizia un altro».
Ne L’Accendino dell’Antropocene l’autore analizza il modo in cui raccontiamo le catastrofi, veri e propri traumi collettivi, e come essi si imprimano, stratificandosi, nell’immaginario collettivo: «La narrazione delle catastrofi è determinante nello stabilire l’impatto che queste avranno nella cultura e nella società – dice Pinto -. Talvolta, le “rotture” che i disastri possono produrre non dipendono dalle loro conseguenze materiali, ma da altri fattori», tipo il contesto: «I disastri possiedono registri visivi. Alcuni avvenimenti quali l’11 settembre o lo tsunami del 2004 – le loro immagini – hanno prodotto un corto-circuito cognitivo, nel quale realtà e finzione si sono mescolate (…) “spettacolari” campi larghi, riprese dall’alto che di solito siamo abituati a trovare nella finzione, soprattutto nel cinema hollywoodiano». Ma cosa succede quando abbiamo a che fare con degli avvenimenti quali la contaminazione radioattiva o la pandemia?
Il documentarista analizza: «La serie televisiva Chernobyl (HBO) fa ricorso a registri più simili all’horror e al thriller che al cinema catastrofico. Per quanto concerne invece la pandemia, l’immaginario letterario e cinematografico si concentra sulle conseguenze dirette e indirette del contagio. Immagini e situazioni che avevamo sempre attribuito al passato o alla finzione sono divenute parte del nostro quotidiano». L’esempio più calzante?, «il film Contagion di Soderberg (2011)».


Gli ultimi 100 anni di disastri ambientali in 5 immagini: «Dal 1932 al ‘66 l’industria chimica Chisso sversò centinaia di tonnellate di mercurio nella baia di Minamata (Giappone). Le vittime accertate furono un migliaio, ma almeno 25.000 persone vennero colpite». Poi: «Edward Burtynsky (qui l’intervista realizzata per La Stampa) noto per la serie Anthropocene e (le sue fotografie sul) ruolo delle energie fossili, cruciale per comprendere l’attuale situazione di crisi climatica e ambientale. Il petrolio in particolare (…). Occorre chiedersi se la parabola industriale basata sullo sfruttamento indiscriminato di risorse e l’immissione di sostanze inquinanti nell’atmosfera non sia essa stessa una catastrofe». O ancora: «La notte fra il 3 e il 4 dicembre 1984, a Bhopal (India), nello stabilimento chimico della Union Carbide, ebbe luogo una fuga di isocianato di metile. La nube investì i quartieri popolari che circondavano l’impianto. Il bilancio, tra gli 8.000 e i 20.000 decessi nelle prime ore, ai quali si aggiungono centinaia di migliaia di intossicati». Per molti, la più grave catastrofe industriale della storia.

Infine, Chernobyl, che Pinto “vede” attraverso la foto di Stefano Schirato: «scattata a 25 anni dalla tragedia, condensa benissimo l’incompatibilità fra essere umano ed energia atomica». Tema, questo, di enorme attualità, a proposito delle conseguenze della guerra Russia-Ucraina.
La lotta ambientale è la sfida del nostro tempo: «Si è affermata l’idea che lo sfruttamento e la distruzione dell’ambiente siano una caratteristica dell’essere umano occidentale. Con troppa facilità si dimentica che l’attuale crisi ambientale è il risultato del capitalismo industriale del XIX secolo. Per questa ragione, ad Antropocene ho sempre preferito il termine Capitalocene. Piuttosto che cercare nuove mitologie occorrerebbe recuperare una progettualità collettiva, mirata a un futuro di progresso “reale” inteso come miglioramento della condizione umana». Fino a qualche decennio fa, continua il ricercatore dell’Université de Lyon: «non si esitava a utilizzare espressioni quali “rivoluzione” in ambito sociopolitico e ambientale. Oggi si preferisce ricorrere a “transizione energetica” o “sostenibilità”». Il punto è centrale: «Il capitalismo è per sua stessa natura insostenibile, è evidente a che punto, ormai, la questione sociale sia inscindibile dalla questione ambientale (…). Se vogliamo evitare degrado di condizioni ambientali, e sociali, occorre un rovesciamento delle strutture che reggono il nostro modus vivendi sociale, politico ed economico».