Copenhagen, “hygge” e fattorie urbane: blogdiary 3


Tempo di tornare. Prima di farlo, però, rubo un po’ di tempo ai miei ospiti: chiacchiere piacevoli di primo mattino. Ci incontriamo in una delle poltrone della hall con Charlotte (marketing) e Mads (food&beverage) dell’Hotel Kong Arthur dalle parole che scambio con loro ottengo uno dei sunti perfetti che ho tratto da questi giorni danesi. Il perfetto equilibrio tra vita, cibo, benessere, lavoro: “work-life balance” sintetizza mirabilmente Charlotte, perché se è vero che 2 anni di pandemia hanno stravolto le nostre vite è anche vero che tutto sta alla risposta.
Qui all’Arthur Hotel per esempio, mi racconta Mads, si usano solo cibi di stagione, che provengono da colture organiche, la politica è rispettare gli impegni dell’Agenda 2030, sostenibilità economica e ambientale, dalla colazione – nella bella serra a vetri, piante ovunque, statue che sembrano provenire dall’esercito di terracotta, e un pianoforte nero a coda sulla quale si consultano i quotidiani – prosegue Mads: “abbiamo impostato la nostra strategia sul lungo termine, usiamo solo prodotti locali (è il new nordic manifesto: si mangia ciò che è proprio del territorio ndr) non abbiamo più succo d’arancia per esempio, perché non è un “nostro” prodotto, abbiamo succo di mela o di frutti rossi, mettiamo in tavola meno quantità di affettati, più buoni, formaggi e latte, il punto è la riduzione dei consumi”: tema importante in giorni di guerra (dimezzata la produzione di cereali ucraina, qui, l’autonomia del gas russo…), anche tutti i cocktail e il vino Mads li sceglie personalmente, in qualche modo dal profondo Nord arriva un messaggio chiaro: dobbiamo superare i criteri della globalizzazione, e se lo fa il nord Europa adesso c’è da crederci, arriverà entro qualche anno anche da noi. “E’ un modo, uno stile di vita” rinforza Charlotte: “usiamo un tempo di qualità, corriamo meno, ogni giorno è ispirazione, esperienza, è la hygge“.

E di cosa sia hygge questo stile di vita di cui parla Charlotte me ne accorgo prendendo la bici verde (nel senso di colore, stavolta) da Nørre Søgade, lungo i laghetti sui quali si affacciano i tetti a scaglie di drago dell’Hotel Kong Arthur, passando Gothersgade e Trangravsvej, dopo il vialone Danneskiold-Samsøes Allé, fino a Refshalevej (vicino la comune di Christiania), sede della fattoria urbana dei ragazzi di Øens Have, non faccio in tempo ad arrivare in questi orti urbani a due passi dalla città, sud di Copenhagen – che scopro si scrive così – che vedo subito una scolaresca di 14enni davanti alla gabbia delle galline che razzolano, poi si mettono in una lunga tavolata, rapanelli e carne alla brace, l’odore del mezzogiorno danese; mi viene incontro Livia, che insieme insieme agli altri co-fondatori ha messo in piedi un’associazione con il focus dell’adattamento climatico, dopo che nel 2017 un turbine d’acqua allagò tutta la città. “L’approvvigionamento in tempi di emergenza climatica”, rinforza Livia mentre siamo sotto il tendone del ristorante sociale dove lunghe tavolate ospitano, su prenotazione, fino a 30-40 persone.
Ristorante sociale vuol dire che tutti mangiano quel che si cucina, sconosciuti che per una sera sono “famiglia”, e la sensazione è proprio questa.
Complice il riparo dopo l’acquazzone che ho schivato per un pelo: “Qui abbiamo ciò che ci serve, ortaggi, galline, prendiamo carne solo da produttori locali, poca e quando ce n’è” mi sembra di parlare con i miei cari amici contadini maremmani “Finché c’è”, e solitamente lì è maiale o cinghiale, “C’è poi dopo si mangia polenta, fagioli e quel che c’è”.

“L’associazione per scegliere questo posto, ricorda Livia, avevamo puntato il dito sulla mappa, abbiamo collaborato con la municipalità, ci hanno dato 7 anni di contratto (poi nel 2025 dovranno lasciare probabilmente per nuove costruzioni, ma i ragazzi di Øens Have sono ‘tosti’, ho verificato, e ne sono certo faranno altro): “Finché siamo qui usiamo lo spazio per coltivazioni organiche, chi vuole può prendere da noi le cassette di frutta e verdura che arriva direttamente dai contadini con cui collaboriamo”, in questa fattoria urbana ruotano infatti giardinieri, insegnanti, manager, cuochi (che tra poco ci prepareranno un pranzo buonissimo), Livia che si occupa di progetti e fund raising “Oltre questo progetto seguiamo ØsterGRO (la prima azienda agricola biologica urbana!) e Gro Spiseri il ristorante e infine FællesGro che invece è il mercato dove si possono acquistare prodotti in maniera diretta dai produttori, pagando un tot a paniere, anche qui la risposta è il locale: “In questa maniera produciamo, consumiamo quel che abbiamo, quel che è in più o viene rimesso in circolo – la circular economy – con gli scarti facciamo compost che poi spargiamo sui nostri campi: vengono scuole, persone, la città si sta accorgendo che c’è un altro modo di vivere, usando le proprie mani, sporcandole con la terra, riavvicinandosi alla natura in maniera diretta, siamo tutti parte dell’ecosistema, uomini, animali, piante, minerali, pesci” si sono già create le CSA-Community Supported Agricolture. A pranzo riso con erbette e crema di burro, asparagi e pane croccante, rape rosse, pane cotto al forno qui fuori (odore che sentivo la mattina), e soprattutto questa meravigliosa bevanda che si chiama Andalima Pepper!

Vado a far visita in bici anche all’inceneritore di Copen Hill, dove vengono smaltiti tutti i rifiuti non differenziabili (ecco, un piccolo punto a sfavore di questo idillio è che i danesi hanno una media rifiuti più alta – 700 kg|anno contro la media di 420 dell’Unione Europea – mi diceva ieri Silvia di Green Bike Tours segno di molti consumi dati anche da standard di vita alti)  detto ciò la società che gestisce i rifiuti oltre a lavorare 24h/365 giorni con i grandi forni, e grandi pompe di aspiraggio e filtri, su questo stesso monolite di metallo hanno pensato di aprire al pubblico e fare una pista da sci, un wall per il climbing e un roof garden. Si torna con un po’ di idee in più, e già la nostalgia dell’hygge, in generale per me della nordic way of life. Chissà. “Il libro del destino è sempre aperto a metà”, scriveva la poetessa polacca Wisława Anna Szymborska.