blogdiary reportage Ucraina 5


Quattordici ore tra andata e ritorno. Da Kiev a Izyum per guardare in faccia il volto del maglio della guerra che ha squassato i terreni, i campi coltivati. Missili inesplosi lungo le carreggiate, i fantasmi dei carri armati, telai di macchine bruciate. I volti dei vecchi intenti a scassare le zolle degli orti. Qui la guerra ha colpito duro, più che da altre parti e nessuna ricostruzione.

A Kharkhiv all’andata ci fermiamo giusto per vedere le bandiere ucraine sopra le tombe nuove, perlopiù uomini ragazzi caduti in questi due anni. Svetlanda, che traduce in italiano questa lingua di impasto lungo, che scivola sulle “c” e le “s”, Svetlana ci dice che ci sono interi paesi senza più uomini, tutti al fronte.

Restano perciò villaggi spopolati, abitati da donne, vecchi e bambini. La conta di genere del conflitto.
Izyum all’arrivo è una vallata dove sembrerebbe si possano un giorno riunire le anime, come la valle di Giosafat dove un giorno verremo chiamati tutti a dare conto delle nostre malefatte. Alcuni più di altri. O chissà.

Un palazzo sventrato a metà dai missili, entrare nelle vite infrante fa venire in mente i versi della poesia di Bertolot Brecht, non sembra di essere in primavera, che più che solo una stagione è una disposizione d’animo. Non c’è rinnovamento in questi luoghi. Solo camion militari che sfilano lungo le strade poco trafficate, se non da camion che trasportano tank e contraerea, sembra di essere in un film, una straniante sensazione di normalità.

Come se fosse pacifico vedere missili trasportati su carrelli, file di mezzi pesanti corazzati, hummer d’assalto e posti di blocco con militari (alla fine della giornata, fra andata e ritorno, ne avrò contati 12) dotati tutti di giubbotti antiproiettili, mitra, corpetti imbottiti, caschi. Tutto verde militare, tutto pronto per l’assalto che verrà. Mezzi blindati di traverso, o TIR, pezzi di cemento armato a terra spuntoni per bucare le ruote di eventuali assalitori. L’ansia repressa del prossimo attacco in arrivo.
Sotto gli edifici i parchetti gioco per bambini sono vuoti, gli scivoli gracchiano sinistramente, stamattina invece le bandiere frusciavano al vento.

L’emozione di salire in edifici pericolanti, mostri di cemento e metallo, spaccati a metà, piano dopo piano vedere le vite che sono state, l’esistenza sfuggente degli oggetti che ci sopravvivono, un libro a terra aperto su una pagina a caso, un disco rotto, due poltrone come in attesa di altro tempo a disposizione, come a dire non sono pronto, non ho ancora finito. Di spingere, amare, discutere, capire le cose al volo, giocare.

Di tutto questo resta polvere tra le macerie, abiti alla rinfusa, nell’ala destra del palazzo un piano è rimasto in piedi per metà. La sezione scopre quello che un tempo doveva essere un armadio. Dentro ci sono ancora gli abiti, sistemati in ordine con le stampelle, esposti alla vista gli abiti di quel che siamo stati, oscenamente restano, mentre i morti. Qui in 50 hanno perso la vita schiacciati dalle macerie dopo le bombe.

A Kharkhiv nel pomeriggio, dopo una puntata fino al confine con l’Oblast’ del Donetsk, la vita scorre. Questa che prima di Kiev fu la capitale dell’Ucraina, una città operosa, piena di ditte che costruiscono macchine pesanti, trattori ma anche carri armati. Un palazzo è stato colpito, così il Kharkhiv Palace forse l’albergo più grande della città.

Lo stesso si respira un’aria diversa rispetto ai piccoli paesi. Come se perfino la guerra facesse dei distinguo tra ricchi e poveri. Ponti divelti. Le campagne martoriate, spuntano teste di missili bianchi scintillii lungo le grandi arterie di raccordo. Tre corsie piene di buchi nell’asfalto, camion in corsia di sorpasso come non ci fosse tempo, o che fosse meglio per tutti sbrigarsi, muoversi, c’è una strana frenesia nell’aria tranquilla. Anche mentre piove, e le nubi si addensano.

Oggi è 18, nei giorni scorsi voci mi hanno detto che il prossimo attacco è previsto in giornata. Non si sa cosa pensare. Non si sa cosa credere né a chi. Tutto e il contrario di tutto. E solo una ultima riflessione, che in tempi difficili è come migliorassimo, gli esseri umani, mentre tutto muore riscattiamo noi stessi.