blogdiary reportage Ucraina 6


Ci sono luoghi che ti mettono addosso il disincanto e il dubbio dell’esistenza. Luoghi colorati e pieni di piante, tranquilli che pure mutano al variare dei giorni. Il legno che vedi così assume la consistenza dell’acqua. I prati diventano plastica. I campi una volta fertili, ferite di cartone, missili inesplosi sui quali è impossibile continuare a raccogliere i frutti della terra. Senza retorica. Solo piombo, arrugginito perlopiù, dopo nemmeno due anni.

Non ci sono più persone a Teterevskoje, siamo a nord ovest dalla capitale, sempre nell’Oblast di Kiev, ma è da qui che sono entrati i primi tank russi in ingresso dalla Bielorussia, non siamo lontani dal confine né tantomeno da uno dei nomi simbolo del secolo scorso, Chernobyl, sinistri echi di post apocalisse nell’aria.
Le case qui a differenza di Bucha e Irpin’ non sono state ricostruite, i boschi sono pieni di mine, mentre arriviamo di mattina uomini sui trattori, militari stanno bonificando alcuni tratti ma ci vorrà tempo. Incontro due cani femmina scodinzolano dopo la paura della guerra degli uomini, non vogliono da mangiare, solo un po’ di contatto dopo le esplosioni che qui hanno distrutto tutte le fattorie nel raggio di chilometri, oltre 300 famiglie ora ridotte a meno di 60, alcuni sono fuggiti altri non ce l’hanno fatta, di loro restano corpi nascosti nel folto della foresta che, da queste parti, mi ricorda quella vista in Polonia due anni fa, l’antica foresta di Białowieża al confine con la Bielorussia. Tutto torna, meno che i conti che gli uomini fanno con se stessi.

Rovine di macchine andate a fuoco, Sergey mi racconta delle esplosioni nel suo terreno, a due passi da casa sua tutto è saltato in aria, lui e la sua famiglia si sono salvati (ricorda il boato dei missili e sua figlia piccola che si nasconde con lui dentro casa in un magazzino), il fischio dei colpi e i cingolati che dalle stradine di campagna si sono fatti largo all’inizio dell’invasione, le colonne di tank che tutti noi ricordiamo in marcia verso la conquista di Kiev, che non è mai avvenuta.
Hanno sguardi non vinti, però, questi contadini della campagna, ci sarebbe quasi da pensare che esistano due Ucraine, una di città che in qualche modo è rimasta lontano dalla guerra e un’altra, invece, costituita da gente semplice che sta aspettando di poter ricominciare a lavorare la terra, fare la semina quando si deve. Mi vengono in mente i cliché degli slavi che ballano di notte sotto l’ombra della notte al crepitio di stelle, scuoto la testa alla mia borghesia urbana, venuta sin quaggiù per guardare in faccia la perdita e l’abbandono.
Cosa sto facendo, mi chiedo, cosa stiamo facendo alla terra? Di mezzo sempre gli ultimi, aveva ragione García Lorca, trucidato pure lui in effetti. La ballata degli ultimi qui si chiude sulle note della pioggia, sono tre giorni che il cielo ci scarica addosso gocce fitte, e umide, che ti si attaccano alla schiena, agli zigomi, sotto le palpebre stancate da un clima sudario, lo stesso cielo interno devono avere queste persone, questi animali – capre sdraiate sull’erba, le poche mucche rimaste vive al pascolo, sfuggite agli incendi o alla carneficina dell’invasore – ho un principio di nausea oggi che non so più se fisico o dettato da quel che ho visto negli ultimi giorni. E pensare che loro resteranno qui, queste ‘persone’ potremmo essere noi, sfollati.

Siamo tutti appesi allo stesso filo di vento. Crediamo di essere intoccati, eppure il fuoco è qui, lo vedi dalla desolazione dietro gli inutili steccati, dai recinti abbattuti, il filo spinato dietro i posti di blocco lungo le arterie che si innervano ai quattro angoli dell’Ucraina. C’è di che ragionare, su quel che vogliamo sia il nostro futuro sulla Terra. Oggi non sono sicuro di niente. Se non che c’è il treno per Varsavia da prendere, un altro notturno, in uscita dall’ennesimo teatro degli orrori di guerre di cui è capace l’essere umano. Il branco che avanza e noi, lì, rannicchiati e in ascolto prima dell’attacco.