NATURAL – 5. Le isole e la neve

Ci dev’esser qualcosa nell’aria. Una sorta di deriva, e creativo declino, che spinge le narrazioni del contemporaneo – in qualche modo – a una riemersione, di qualche tipo. Economica. Di cammino. Giustizia. Sociale. Si moltiplicano le storie alternative, le indagini altre, le ambientazioni in paesaggi post-umani. Al di là, verdi, oltre l’uomo, blu.

Isole dell’abbandono. Vita nel paesaggio post-umano di Cal Flyn (Blu Atlantide, euro 19,50, trad.it. Ilaria Oddenino) scava, invoca, si introduce nei tunnel oltre la Manica, dalla Scozia al Michigan, Verdun, Tanzania, l’autrice scozzese ci porta in viaggio lungo le dorsali di un reportage atipico, è lo storytelling di un’idea: che laddove l’uomo scompaia la Natura prospera.
Le isole dell’abbandono sono musei a cielo aperto, luoghi magici, ventosi, spiriti che emergono dopo la devastazione operata dall’essere umano: la topografia che riluce dopo l’usura, il paesaggio che si prende la rivincita sulla tecnologia, il dominio dell’uomo è solo temporaneo su questa Terra – ci dice questo libro-reportage, una forma ibrida ricca di immagini, fotografie che la stessa autrice ha fatto durante i suoi viaggi nelle terre “desolate” – ed è questo parziale, sottile, agito, operato, che si ritorce contro i suoi stessi creatori (noi) che interessa a Flyn: le Waste Land già cantate dal poeta T.S. Eliot diventano le “Cinque Sorelle” nel Lothian Occidentale, Scozia: e sulle colline dove oltre un secolo fa i carri trasportavano tonnellate di roccia fumante, lo scisto e il petrolio, sorge il Male della civiltà industriale che ha contaminato i mari, il pugno rosso si è abbattuto sui crinali; attraverso una serie di dati storici, osservazioni – che sono valse a quest’opera il Sunday Times Young Writer Award l’autrice, che scrive per alcune delle più importanti testate anglosassoni (tra questi Granta The Economist) ci racconta 12 luoghi sparsi per il mondo: così che là dove un tempo c’era il fiume Colorado oggi c’è il Lago Salton, ciò che rimane di un canale di irrigazione che doveva servire per irrigare un tratto desertico nel sud-est della California, e che oggi ospita solo lische di pesci morti; dai resoconti di Flyn scopriamo che il vulcano “Krakatoa” in realtà si chiama Krakatau, e che il celebre cielo ne L’urlo di Munch probabilmente fu ispirato all’autore da un’eruzione vulcanica particolarmente potente avvenuta nel 1883; passando dalle crime scene di Detroit, vero cimitero post-industriale a cielo aperto, al luogo dove il fiume Passaic incontra il mare, percorrendo la Route 21 scorre l’urbanizzazione selvaggia: è il “panorama-zero” della palude, dove galleggiano lattine di birra, tubi di plastica, relitti di decine di navi che affiorano, è l’Arthur Kill di Staten Island, Flyn va da una parte all’altra del mondo: Chernobyl, le zone di alienazione (o zone morte) di Pripyat – ancora l’Ucraina che torna, snodo e viatico del presente – dei villaggi restano fantasmi, i boschi sono seccati e ciò che rimane sono edifici abbandonati ricolmi d’erbe e piante infestanti, di ciò che un tempo fu il passaggio|paesaggio dell’uomo resta solo un hinterland radioattivo, ma per fortuna la Natura si riappropria dello spazio.
Il declino del clima – i feedback loop – segneranno la prossima epoca. L’abbandono genera altra vita, scrive Cal Flyn, e ciò che resterà sulla Terra non sarà il residuo dell’opera dell’uomo: sta solo a noi capire se vorremo vedere il prossimo mondo che verrà.

La narrazione a capitoli alternati, nei dispari seguiamo Joe mentre nei pari Helen, madre e figlio, scelta da Samuel Fisher  per questo suo secondo romanzo porta il lettore in un presente alternativo: la Gran Bretagna è ormai sotto la neve a causa dei cambiamenti climatici, i suoi abitanti sono migrati verso climi più miti, e ciò che rimane sono piccole comunità in auto-gestione.
Se è vero, poi, che l’autore de La neve non ha odore (8tto edizioni, €17,00 trad.it. Cristina Cicognini) innesta un sub plot giallo, o thriller – il cadavere di un ragazzo viene trovato in mezzo alla neve (!) accanto a un altro con in mano un’ascia – sono i paesaggi asfissianti di Fisher che tengono gioco: è una forma atipica, a metà tra il racconto ambientale e il breve romanzo cli-fi (la casa editrice 8tto si è data proprio la missione di pubblicare casi editoriali di autori anglosassoni di romanzi e racconti): la terza persona e il presente indicativo segnano il passo di una narrazione scabra, desertica, glaciale: basterebbe contare quante volte l’autore usa la parola “ghiaccio”, mentre il mondo è ridotto al silenzio, irreale, sospeso le vite degli uomini e delle donne che popolano La neve non ha odore sono essi stessi il “vero” paesaggio, è la claustrofobia delle piccole comunità, le vite intrecciate, gli equilibri sottili alle quali adattarsi (o perire): l’uomo è solo un accidente, ci dice Fisher, fondatore della casa editrice indipendente Peninsula Press – sono gli odori e i colori, il caldo e le sensazioni a renderci vivi, ostili, come due fratelli cresciuti insieme (è questa l’identità dei due a terra?) il mondo è caduto: Patrick, Bill, Rachel e Sandra, sono fantasmi in fuga, tracce appena su una neve passeggera, perenne, lungo le quasi 200 pagine del libro le disillusioni cadono, le strade sono segni fugaci, i paesi piccoli, l’uomo è stato ridotto, retrocesso finalmente alla sua dimensione, presto cadrà altra neve gentile, un manto persistente e freddo, in grado di attutire il dolore di vivere, la responsabilità di generare un altro tempo possibile per la razza umana sul pianeta. Quella storia comune che, sola, ci può permettere di co-abitare un luogo altrimenti ostile.