Israele blogdiary giorno 6


Nel Mar Morto il sale è in una concentrazione superiore al 30% il che significa che l’acqua non solo cristallizza a riva ma che il galleggiamento dei corpi riceve una forza maggiore (Archimede ne sarebbe contento) quindi si resta cono la schiena immersa, la linea dell’acqua lungo l’affioramento, a testa rigorosamente in su: tra le altre cose, è vietato immergersi, del resto il bruciore agli occhi sarebbe insostenibile. Basta assaggiare appena l’acqua salata per comprenderne la ragione.

Arriviamo al Mar Morto – dove la depressione scende a 426 metri sotto il livello del mare ndr – scendendo le colline e le valli abitate dai beduini, lungo la strada si trovano gli accampamenti all’aperto, anche le abitazioni però sono in qualche modo più stabili rispetto all’idea di deserto che abbiamo noi occidentali. L’altro con cui non abbiamo ancora fatto i conti, in qualche modo sempre inferiore, in quanto diverso dai nostri standard.

Le dune si avvicendando ai wadi, che in arabo significano più o meno “letto prosciugato del fiume”, e da cui proviene il nostro termine, guado, appunto. In questo periodo ancor di più, racconta Igor la nostra guida, a causa del caldo eccezionale anche per queste latitudini, dove in estate si sfiorano i 45°C.

Per vedere il fatidico “0 sul livello del mare” ci si ferma in una piazzola di sosta, lo zero s.l.m. è un po’ come per noi Greenwich, il parallelo di Londra.
Alcuni beduini attendono i turisti con un cammello, per fare una fotografia che catturi (inesorabilmente niente) del loro spirito, la sabbia del tempo, imprigionabile, che segna invece i figli del deserto, i loro bambini.

Ma sto solo invecchiando, stamattina del resto ho pianto di fronte agli occhi tristi di un altro cammello sulla piazzola del Monte degli Ulivi. Tutto il mondo è globale. Tutto il mondo. Quindi nessun luogo è più solo quel che è. La spersonalizzazione dei territori uno dei tratti di cui parlava Marc Augé, anni fa, a proposito dei nonluoghi.

La cultura araba primeggia nel quartiere orientale di Gerusalemme, ma qui nel Mar Morto, superati i posti di blocco, dentro e fuori la Palestina, il confine con la Giordania, più su ancora quello della Turchia. Rotte che stiamo attraversando facilmente, in qualità di giornalisti europei, siamo nel gennaio dell’anno del signore 2023 d.C.

Scrivo questo post per i posteri, quelli che verranno dopo di noi. Dopo sei giorni in terra santa, e aver visto molti kibbutz: modelli collettivi, che tentano di preservare il bene di queste piccole comunità.

Il Kibbutz Kalia, racconta il gestore Amisinay, possiede anche un hotel; nelle attività del kibbutz sono impegnati 200 lavoratori palestinesi: si coltivano datteri, soprattutto, ma visitiamo anche campi di cipolle, più in là dopo le serre ci sono pomodori e altre verdure, grazie a un sistema idrico basato su riserve d’acqua – 1.5 milioni di litri – che pompa acqua dolce prelevata a Gerico, e redistribuisce alle piante il che giova una produzione di circa 150 chili di pregiati datteri a stagione (che va da agosto a ottobre).

Fa 29°C a gennaio, il Mar Morto sta scendendo di 1 metro l’anno ormai, per via dell’evaporazione maggiore dovuta al surriscaldamento globale.
Non vorrei fare pensieri tristi ma a quest’ora, mentre scrivo da un giardino affacciato sulle montagne, il pensiero va alle centinaia di persone che si stanno spostando, in questo stesso momento, che tentano di attraversare il deserto, le alture del Golan che ho visto in questi giorni, magari. Persone che attraversano territori bellissimi, come questi, senza riuscire a goderne la bellezza.

Anche il destino rema contrario, del resto. Salta la visita alla meravigliosa fortezza di Erode (datata al 73 d.C.) strategicamente incastonata tra le rocce all’interno del Parco Nazionale di Masada. Il cavo che dovrebbe portare su i visitatori con una funivia è rotto e pericolante, quindi non si può raggiungere la fortezza neppure a piedi per motivi di sicurezza. Ci resta il vento, allora, e il fantasma delle illusioni, che ci fanno resistere alle delusioni, piccole e grandi, e accendono le speranze.

Continuo a scrivere stasera appena fuori dalla stanza dell’ultimo kibbutz Ein Gedi, del quale domani visiteremo il Giardino Botanico. Appena un’altra illusione di speranza. Siamo giunti fin qui. In questo Eden di terra santa. Del resto più in basso di così, come cantava Daniele Silvestri in una sua canzone qualche anno fa, non potevamo (proprio) andare.