per fare un manager …

 
Coniugare
tradizione a innovazione. Il fare artigiano all’azienda. L’essere umano al
capitano d’industria. Le formule segrete, vecchie di secoli, tramandate di
famiglia in famiglia, alle nuove leve del marketing globale. L’attenzione ai
dettagli che ha reso l’Italia il Belpaese nei Cinquanta, Sessanta. Gli anni
delle signore alla moda europea, coi cappellini francesi, e gli uomini sobriamente
vestiti – novelli James Stewart incarnazione del sogno americano di prosperità
e ottimismo – un’ombra di vetiver tra le mascelle volitive e le acconciature di
brillantina, a credere in un roseo prossimo futuro. Sorseggiando un aperitivo
con gli amici, appoggiati con la mano in tasca al bancone di legno di un
vecchio ed elegante Caffè. I bicchieri di vetro. E liquori speziati, d’erbe
raccolte nei continenti lontani, solo per portare alla bocca il sapore
dell’unicità. Tutto miscelato sapientemente da distillatori di professione, che
nello spazio di un alcolico – in mezzo i moti del 1848, la Belle Époque, la
Rivoluzione d’Ottobre, le invenzioni e le Grandi Esposizioni, i due terribili conflitti
mondiali – condensavano di quegli uomini, e di quelle donne l’ardente passione
dell’avventura, con un tocco rigorosamente d’antan.
Niccolò
Branca è uno dei figli di quella necessità di “innovare nella tradizione” tutta
italiana, che negli anni d’oro ha portato alla ribalta i grandi imprenditori
come Olivetti, Piaggio, Campari.
Discendente
di uno dei quattro fratelli storici che fondarono le Distillerie nel 1845, al
timone dal 1999 Niccolò rappresenta la quinta generazione di quella strana
alchimia di passione e imprenditorialità che rese quegli uomini d’avventura,
esploratori e viaggiatori, i veri “entrapreneur” narrati dal talentuoso
economista liberal Jospeh Alois Shumpeter (unico, vero, antagonista di Karl
Marx
negli anni della lotta di classe e delle rivoluzioni tecniche). Ma
non c’è solo istinto e passione in questa piccola, grande, saga familiare, che
però ha anche molto di nazionale (Pastorale
americana
di Philip Roth docet).
L’ormai Cavaliere del Lavoro Niccolò Branca ha appena
pubblicato Per fare un manager ci vuole
un fiore
sottotitolo Come la
meditazione ha cambiato me e l’azienda
(Mondadori, 17 Euro).

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«Innovare
nella tradizione vuol dire essere in grado di produrre (è imprenditore, Branca,
convinto dell’industria, meno della Finanza, quasi per niente della Finanza
Creativa ndr) ma in fondo restare
sempre un artigiano, con la stessa attenzione ai dettagli, la stessa
originalità dei gesti» (e della formula vincente del prodotto, di cui solo
Niccolò è attuale depositario al 100% ndr).
«Come Michelangelo che tirava fuori dal marmo le linee che il blocco gli faceva
vedere, noi allo stesso modo produciamo un prodotto che è storia».
«In
molti vengono qui a fare visita ai nostri stabilimenti, o al Museo di famiglia,
e magari gli sembra di aver solo visitato delle cantine – botti di legno
vecchie di secoli, tra tutte la Botte Madre costruita da maestri d’ascia a fine
Ottocento, legno di rovere di Boemia, colore del miele, il profumo dello stravecchio,
resina che scende come lacrima : «La parola “Cognac” l’Italia dovette cederla
ai francesi nel 1953» racconta l’entrapreneur
che ha fatto della meditazione il centro del suo fare impresa, l’equilibrio
della condivisione dei risultati al timone di una delle aziende più popolari
d’Italia (chi non rammenta gli spot Brrrr…
Brancamenta
, o la bella ragazza bionda con gli occhi di ghiaccio –
messaggio subliminale, che la voleva sciogliersi ai nostri occhi come lo stesso
cubetto da aggiungere al bicchierino di Fernet)».
La
via e la direzione del suo “fare impresa”, l’erede dei fratelli Branca lo
declina oggi – forse un po’ anacronisticamente, nel 2013 delle app, e quindi
per fortuna! – in poche, precise indicazioni; per meglio dire, ai
vecchi/giovani imprenditori che si confrontano col Mercato in balia dei venti,
le istruzioni per tenere la barra dritta, timone sulla rotta, e avviso ai
naviganti: «Stiamo attraversando un momento critico, che è diverso dai
precedenti, perché non è transitorio. È un’epoca di grandi stravolgimenti,
questa, e quindi di trasformazioni, e le trasformazioni non sono mai facili», Branca
così scomoda Karl Polanyi e Thomas Kuhn, la “creazione distruttrice” e
Khrisnamurti per trovare le parole giuste, quelle scomode, difficili da digerire
perché svelano l’apparente stato delle cose: «In momenti come questi è
importante agire, più che solo reagire (Fernet ha rilevato il Caffè Borghetti e
la Grappa Candolini ndr); rendersi
conto che siamo un microcosmo all’interno di qualcosa di più grande, che non
esistiamo solo noi, ma al limite esistiamo in relazione a ciò che c’è intorno;
allora, occorre fare ciò che si vuole, non sacrificare – come accadeva ai tempi
del miraggio del “posto fisso” – le proprie passioni ai falsi idoli degli altri,
non bisogna più perdere tempo in progetti che non siano i … nostri!»
Non
lo dice da guru, né da personaggio eclettico uscito dai romanzi russi del
Novecento, Niccolò Branca sembra piuttosto un uomo del Rinascimento, prestato
allo steampunk – mentre parla, dietro
di lui: strani marchingegni di rame, valvole a pressione, alambicchi e
bottiglie dall’affascinante estetica farmaceutica – in cui l’uomo è ciò che fa,
l’essere e le sue passioni, l’Uno e il Molteplice: «Tutto ciò che facciamo ci
rappresenta in un certo senso, la nostra azienda è un organismo, che vive,
produce, è composto da tutte le persone che ci lavorano, e il valore di tutto
questo è (di molto) superiore alla mera somma delle parti», lo aggiunge con un
vago accento toscano, quello che dice “vengano” e non “vengono”, “dicano” e non
“dicono”. Parole dal palato fine, come il risultato, la merce che arriva al
consumatore, che gli porta dunque l’informazione, il luogo lontano da cui
proviene, nel naso lo stesso odore dei porti di mare e di vento; i pontili di
rovere, dilavati dal sole schiumanti di salsedine, durante i viaggi nelle
lontane Indie, a Oriente dove sempre mira l’ochio del viaggiatore (almeno a dar
retta a Paolo Rumiz).
«Non
potere, ma responsabilità» dice infine Niccolò Branca per condensare in due
parole la sua passione, in suo mestiere di vita, come anche Spiderman e i
supereroi dei fumetti in cui la realtà si mischia con l’incredibile e il lavoro
di squadra alla specificità d’ognuno; nel continuum
che siamo (noi e il demone che, in un certo senso, rappresentiamo per noi
stessi) fatti di tempo e di spazio, né immortali né senza memoria. Ma prodotto
di ciò che siamo stati, e ciò che saremo :«Il nome Fernet non si sa da dove
derivi, veramente, ma esistono due storie: una prima possibilità è che provenga
da questo mitico dottor Fernet, un francese che avrebbe aiutato i miei avi a
trovare la formula “magica” che ci tramandiamo da secoli; una seconda, più
quotidiana, vorrebbe che il nome venga dal fatto che gli operai usavano i Fer net, i “mestoli puliti”, per girare
il liquore».
«Creatività
e passione. Dignità del mestiere e scelta. Costruttori della nostra realtà»
vento in poppa e sguardo diritto al Grande Futuro. Da tenere sulla mappa di
ognuno, controllando al nefoscopio direzioni contrarie e maremoti avversi. Ma
nulla può fermare le navi, se il vessillo e la bandiera son d’armi passione e
avventura, così forse avrebbe scritto Rudyard Kipling, o più poeticamente Walt
Whitman: «Capitano, mio capitano». Perché la parola “impresa”, soprattutto –
sembra volerci dire Niccolò Branca – prima d’esser altro, significa “avventura”.
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