fast4ward puntata 8: offlaga disco pax – 2a parte

_ppo Spugnagiulia 3565929865_b9c9c0d33a Offlaga Disco Pax (colore - fotografia di Fabrizio Fontanelli)

Stasera ODP Live@Reggio Emilia c/o C.S.O.Lab.AQ16

(la seconda e ultima parte dell'intervista)

Il progetto ODP «è nato live, da un incontro, continuiamo a suonare per il piacere di farlo, come unità artistica. Quando ci siamo conosciuti non avevamo l’idea di diventare un gruppo, all’inizio era solo un esperimento live. Cosa ancora più evidente nel nostro secondo disco Bachelite tutto costruito su un suono che usa la tecnologia, ma senza sottomettersi a certi obblighi tecnologici: volevamo rendere il disco in studio ascoltabile anche dal vivo».
Individui e comunità: come si è evoluto il rapporto tra uomo e spazio dal primo passo sulla Luna? Risponde Collini: «Come emerge dai nostri testi, in realtà abbiamo sposato un immaginario territoriale unito a un approccio sonoro che, al contrario, riscuote interesse anche in ascoltatori stranieri, a cui piacciono spesso i nostri pezzi anche se non capiscono i testi: ci è successo con un ragazzo argentino a cui è piaciuto moltissimo l’album anche se aveva capito un decimo dei testi: c’è un’universalità nella musica che va ben oltre la territorialità. È sicuramente incredibile come Internet, comunque, ci abbia permesso di arrivare ovunque nel mondo: poco tempo fa ci ha scritto un giornalista neo-zelandese che voleva farci un’intervista per una fanzine, oppure ci ha scritto questa mamma che ha un bambino di 4 anni che ascolta tutti i giorni Robespierre… non abbiamo fatto molto per arrivarci, dopo che abbiamo messo su Internet i file delle nostre canzoni quelle hanno cominciato a duplicarsi da sole… all’inizio soprattutto, le canzoni poi piacevano di più a chi ci ascoltava che a noi».
Vivere in città o fuori, e perché: ha ancora senso parlare di centro-periferia? Per Fontanelli «mentalmente parlando, questa differenza non esiste più: se fai musica, puoi farla sentire a New York in tempo reale. In un altro senso, il “centro” fisico dei luoghi è oggi il centro di massima contraddizione. Mi viene in mente il parallelo “provincia”, in senso culturale, e “centro” inteso – alla anglosassone – come il posto dove si conservano le culture, i ricordi, le tradizioni positive del territorio. Insomma, è come se oggi la “periferia” fosse un’espansione del centro, dove però le trasformazioni sono difficili: è una periferia succube del centro che diventa giustificazione del centro, senza essere in grado di riproporre gli aspetti positivi del centro. È una periferia, insomma, che rimane schiava del centro perché lo serve, è una sua derivata».


Come intendete e come usate la tecnologia nella creazione della vostra musica? Carretti spiega che:«l’ultimo disco è stato registrato in analogico e su nastro, il tentativo è di fare un uso ragionato di tutto ciò che precede la tecnologia digitale, sfruttando al massimo il potenziale dell’analogico, un po’ come decidere di comprare un videoregistratore, un vecchio VHS, invece che un dvd di ultima generazione. La tecnologia, poi, è una relazione con il tempo: negli anni 70 il moog era “tecnologia”, oggi sono entrati altri parametri: tipo l’avanzo tecnologico». E continua Collini «Ho addirittura iniziato a scrivere grazie alla tecnologia: a 30 anni, per la prima volta, ho avuto un pc; è stata una scoperta, l’istinto della scrittura mi è venuto in mente all’approccio, avevo più input ma con consapevolezza, c’era un “passaggio primario” dalla scrittura alla macchina. Poi una volta che ho iniziato, tutto sommato, mi sono detto, posso sempre custodire il blocchetto degli appunti per scrivere i testi, prima di convertirli in file. A volte me lo perdo, non so dove sono i file originali. La differenza tra scrittura ed elettronica è che il pc è un contenitore vuoto, senza pregiudizi formali».
Per Fontanelli «dal punto di vista musicale, la tecnologia illude un miglioramento costante attraverso il suono ma è una semplificazione, e questo vale sia per un’immagine che per il suono, che per i frigoriferi. La tecnologia facilita per molti versi anche la registrazione dei dischi, solo 12 anni fa registrare “da soli” era impensabile: prima c’erano le sala prove, i primi masterizzatori, ma non si poteva registrare direttamente su cd. Oggi invece è possibile. Ed è meglio, perché questo processo facilita la creatività, ed è molto democratico, ma forse anche poco artistico; del resto, non è democratico il mercato!». E ancora: «scegliere uno strumento pone dei limiti ma, paradossalmente, costringe a usare la creatività: avere limiti precisi, rispetto a un accesso illimitato di funzioni, permette di mettere meglio a fuoco le cose… sei inserito in una corsia, definita, ti dà una direzione che poi puoi decidere di abbandonare, seguire, variare… La facilitazione tecnologica non crea l’attitudine artistica, i 360 gradi che pone di fronte spesso sono solo un “dispersivo”».
Perché avete scelto la “prospettiva storica rivoluzionaria” per descrivere il vostro mondo? Risponde Collini: «il progetto ODP attuale nasce da un incontro fortuito, il duo Fontanellil-Carretti già esisteva e io andavo ai loro concerti», continua «appartengo a una generazione diversa, loro sono più giovani. A un certo punto, ci siamo incontrati ed è nata la volontà di collaborare, così nei live hanno iniziato a usare i miei racconti scritti in libertà assoluta, che non erano tanto legati a una prospettiva di rivoluzione quanto al descrivere storie, molto minime e domestiche, contestualizzate in un territorio identitario: il mio! Siccome sono nato e cresciuto in questo territorio, che ha quel portato ideologico, i testi ovviamente sono contaminati da quelle ideologie. Oggi i testi sono del gruppo e non c’è volontà pedagogica, non sono racconti divulgativi o proposte politiche, nascono dalla necessità di trasformare il nostro vissuto in musica».
Le tre canzoni che vi vengono in mente? Fontanelli: «Transmission dei Joy Division»; Carretti: «The Needle di Brian Eno»; Collini: «Onda araba dei Litfiba».
Nei vostri testi ci sono molti riferimenti agli anni 80 e molti prodotti (tra cui il Tatranky, il Toblerone, Space Invaders) il mercato nel frattempo – dopo un immaginario – ha prodotto una società: quale?
«Io ho 42 anni, quando ero piccolo la possibilità di scelta era limitata, per la scuola al massimo potevo scegliere fra tre astucci, e il massimo dei videogame era Space Invaders. Il luogo “globale” per crescere era il quartiere, le opportunità dell’identità te la dava il luogo dove eri nato, il territorio con cui ti confrontavi, avere un giubbotto piuttosto che un altro ti identificava (i paninari…), e così era anche la scuola, tutti passaggi brevi ma intensi. L’impressione della società contemporanea è che esista meno varietà “reale” in questa abbondanza apparente, dove per superare i limiti basta eliminare quello che non piace. Abbiamo creato una “società del consumo a prescindere”, in cui però – nell’illusione di spostarsi più velocemente – il tempo viene risucchiato».
Tecnologie e musica «l’iPod ha generato possibilità infinite. Permette addirittura il dono dell’ubiquità: dopo aver creato un pezzo, basta trasferirlo su un iPod, posso sentirlo in macchina mentre vado a fare un’intervista o a un concerto, o prima di una registrazione per sentire quali sono gli elementi da correggere, da ampliare, è un feedback immediato che contamina la scelta artistica… ed è anche eco-compatibile. Il download può essere un vantaggio, la pirateria in un certo senso combatte il global warming: non c’è produzione quindi l’industria non produce scarti che provocano inquinamento. Se non vogliamo che la plastica sommerga il pianeta… la diminuzione dei “passaggi di produzione”, del packaging – la confezione del prodotto – possono essere primi metodi per contrastare il degrado ambientale. Uno dei problemi principali di questa economia è l’aver creato una saturazione di merci, l’esasperazione del consumo in ogni forma. Poi nei momenti di crisi… va riconsiderato il concetto di performance: oggi si torna a far confezionare gli abiti dalle sarte, la gente riscopre la qualità degli oggetti, la cura che meritano». Forse la necessità della non quantità.