(intervista integrale)
Si ringrazia per la traduzione Davide Bocelli
Ci sono artisti che non dimentichi, che arrivano dritti come un colpo allo stomaco, che ti cambiano il modo di percepire il mondo. Joan Wasser, in arte "Joan As Police Woman", è una di questi.
Due album all’attivo – To Survive (2008) e Real Life (2006) – un filo di rimmel nero sugli occhi distratti e leggeri, la incontriamo prima di un concerto. Ai piedi, le sue tipiche calzature: improbabili stivali, questa volta color argento, da cowboy elettrico (vai al sito ufficiale).
Cosa rappresentano le parole per JAPW, i tuoi testi sono costruiti per racconti o per immagini? «Non vorrei fare un gioco di parole ma i miei testi parlano di immagini, della mia vita: quando sento una forte carica emotiva, tento di tradurla in musica. Cerco in questo modo di fermare quello che provo, dopo ogni esperienza. È un approccio più espressionistico che “reale”, e probabilmente contribuisce alla mia musica. L’atro lato della medaglia» si ferma un attimo, e il guizzo nello sguardo porta a galla l’energia che colpisce chi l’ha vista sul palco, pura energia di suono: «sembra sia difficile essere in relazione con me, proprio per questo sovraccarico di emotività».
Di che materia è fatto il mondo ideale di Joan As Police Woman? «Mi piacerebbe un mondo dove tutti siano pronti ad ascoltare, dove le persone non vogliano imporre le proprie ragioni, in cui ci sia (molto) spazio per la diversità».
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In letteratura esistono i progetti collettivi di scrittura, la voce può essere inteso come “strumento collettivo”? Risponde: «Ho cominciato la mia carriera suonando il violino e ogni volta che canto ho l’impressione di suonare il violino, sono così simili!». Come per incantesimo, vengono in mente i mondi animati de La bella addormentata e Lo Schiaccianoci di Tchaikovsky. Ma è solo un attimo, così continua: «Mi piace utilizzare la voce per quello che è, anche senza parole; ad esempio come coro, credo che in fondo la voce sia una parte di un tutto inscindibile».
Se questa è l’Epoca Tecnologica, che meccanismo è la musica in questo mondo? «La musica in alcuni momenti è come un gas, non la puoi toccare ma succede: in un momento e in un punto preciso. Se produci la musica con la tecnologia è la stessa cosa: la tecnologia si muove attraverso lettere e codici specifici, pensa ai pacchetti di informazioni che viaggiano nell’aria con il wi-fi, alle parole scritte su una mail, che hanno una “permanenza” che parte da un inbox e arriva a un altro: ecco la musica questo non ce l’ha, specificamente. Ma, non so se posso trovare una metafora, esiste qualcosa di simile per le note: permangono in un certo punto e per un certo tempo. Per questo la musica è “sacra”, perché esiste. È un’immateria presente ma che non puoi trovare in nessun posto, tranne che nella percezione delle cose, e che a un certo punto diviene parte del tuo sangue, e che però resta intangibile».
La collaborazione che ancora non hai fatto e che vorresti fare? Sorride: «mi piacerebbe lavorare con Neil Young, che rimane uno dei miei artisti preferiti, allo stesso tempo emotivo e semplice. Un artista che, come la poesia, con poche parole riesce a raccontare il mondo. E che, dopo 40 anni di carriera, continua ad avere estrema passione per quello che fa! Per lo stesso motivo mi piacerebbe collaborare con Mark David Hollis, il cantante dei Talk Talk. Credo che il segreto (della vita) sia nutrire grandi passioni».
Per molti, bellissimo esempio della rock renaissance – guidata da artisti come Antony Hegarty (Antony & The Johnsons) e Rufus Wainwright – JAPW ha collaborato con Black Beetle (Michael Tighe e Parker Kindredm, musicisti del “divino” Jeff Buckley – suo compagno di vita prima della prematura scomparsa ndr), Lou Reed, Nick Cave, David Gahan dei Depeche Mode…
A ogni collaborazione JAPW ha aggiunto una dose di (rara) sensibilità alla sua (incredibile) capacità sonora (per la sua voce è stata spesso accostata a Dusty Springfield, Annette Peacock e Chrissie Hynde dei Pretenders).