Generazione X 2.0_file6://fotografo

Il ponte Testaccio ha intorno la metropoli. Collega una riva
del Tevere a Piramide, all’uscita urbana verso il mare. Roma non esiste più se
non nelle trattorie, nei ponti al mattino, nei vecchi che s’affiancano mentre
cammini, con la spesa del mercato. Il MACRO – Museo d’Arte Contemporanea di Roma – è spazio
recuperato all’ex Mattatoio dove, negli anni, ho visto molte facce, concerti
più o meno belli, degradi evidenti nella scolature di birra sul selciato.
Oggi sulla piazza alzo lo sguardo come per la prima volta:
la scritta «Frigorifero» campeggia sull’edificio a lato dell’ingresso. È dentro
il Museo che per GX2.0 incontro Francesco Fornaciari, 27 anni, studente di
Architettura. Fotografo che lavora con l’underground e gli spazi urbani. In
viaggio costante, per scovare immagini, che emerge per contrasto di luce/ombra,
come da un’irrequietezza sensibile, attenta alle conseguenze più che alle
verità «La fotografia ferma un momento, riguardando foto ho pianto e riso»:
conoscere i tratti attraverso le foto, stringere piani focali per ottenere
un’immagine. Attraversare il Mondo negli sguardi.

Nel viaggio, l’arrivo è un ponte di scalo «Di solito viaggio
con i mezzi più lenti perché così conosco persone. Sono le condizioni minime
che raccontano un viaggiatore», come Tiziano Terzani: viaggiare leggeri, invisibili,
non attirare attenzione, attraversare il Mondo «con l’unica lingua
internazionale, il sorriso».
F è tornato da poco dalle Filippine: un viaggio di quasi due
mesi, passando per la Cina. «Sono andato a fare il designer, ma durante il
viaggio faccio sempre scalo nei posti non previsti: è quello che ti da la
verità», è così che, mi racconta «ad Hong Kong ho visto Queen’s Pier, un
Centro Sociale che verrà distrutto per fare un centro commerciale…». Il Mercato
trasforma. Ovunque. Sono foto belle quelle che mi mostra, ma «con la perdita
dell’analogico non si ha più il pezzo unico: il digitale è utile ma seriale,
non c’è più prototipo che possa bruciare, non c’è più la tremenda bellezza di
perdere per sempre quell’immagine».
«Le foto dello sbarco in Normandia di Robert Capa, anche se
sgranate o poco a fuoco, rappresentano la libertà dell’Europa». Mi parla
dell’importanza del soggetto, della documentazione «si studia un progetto e poi
si scatta, la luce è uno scalpello: una donna anziana si sovrespone per
togliere le rughe, il bambino si sottoespone per saturare i colori che ha
addosso».
Nel rapporto Uomo/Macchina «ho fatto belle fotografie con le
usa&getta, brutte con la Leica…». L’uomo è lo sguardo, la Macchina lo
strumento. Differenti come memoria e tempo «più chiudo il diaframma, maggiore è
la profondità di campo, meglio riesco a fissare i dettagli». Poi c’è la
tecnica, «Sebastiao Salgado riusciva a fotografare senza appiattire il taglio di luce. Se
vuoi centrare un contadino che fa saltare il riso devi essere in grado di far
saltare il riso, e non il contadino…».
Conoscenza come libertà «se conosci la regola puoi uscire
dal gioco, invertire lo sviluppo, tirare fuori colori che non esistono».
Modalità e istinto portano fuori le immagini «Scappavo dalle feste belle per
andare ai rave, arrivavo con la mia Mercedes diesel per
fotografare i sound system (il muro di suono delle feste ndr)». In
quelle notti «Ho cercato di fotografare la vita, le 24 ore, il prima il durante
e il dopo», mimetizzato al popolo oscuro della techno minimale, «capitava anche
di non trovare i rave ma anche quello diventava foto: macchine, autostrade,
zone dell’archeologia industriale, falò fatti con l’elenco del telefono». Come
ne I Guardiani Della Notte (di S.Lukijanenko, Mondadori, 2005) una
ricerca di contrasto, luce/ombra, «persone che emergevano dalla notte con gli
occhiali davanti l’alba, camper, ragazzi in down».
Immagini immortali, di uscita dal possibile Game Over. La
fotografia per F è ricerca del nascosto «L’underground è ciò che vive quando
gli altri si addormentano: posti incredibili, graffiti su una metropolitana, la
lettura di una poesia al Palatino di notte, sentire musica in un Centro Sociale
poco prima del sorgere del sole». I posti in cui non ci si sente «ospite».
Chiedo di mostre fotografiche e progetti: il labirinto si
srotola, irrequieto, di scatto «Un libro con gli Stalker sulla memoria del
Mattatoio di Testaccio a Roma; un progetto sull’abitare eventuale;
Berlino: una città, 2 città, molte città; il Convegno internazionale
sull’immigrazione a Lugano; due personali sui viaggi in Cina, Thailandia,
Giamaica, Berlino, Parigi, New Orleans, Filippine. E poi, un libro di
“fotografie matematiche”, uno di ritratti, un progetto sul parkour, un libro su
un compositore di musica elettronica cileno che vive a Berlino».
Ma ogni viaggio ha un’unica foto che lo rappresenta «quella
dell’ultimo è un bambino che lancia l’esca nel mare. Per gli altri è
giustificazione di uno scatto, per me è Davide contro Golia».
Generazioni in cerca di identità, dualità risolte per mezzo
di immagini, a volte di pixel a volte di messa a fuoco.

Articolo_31_gennaio_08