Non sarà un caso che tutti, dopo la pandemia, ci si stia interrogando su ciò che sarà. La scomparsa della “certezza” del futuro. Un paradosso temporale, a pensarci bene, che in verità presuppone la stessa convinzione che ci tiene in vita; ovvero, l’inspiegata banalità del pensiero che il domani sarà migliore di oggi: perché ci saremo dati un obiettivo, le cose infine gireranno per il verso giusto, la conoscenza ci farà vedere ciò che prima – ciechi – non riuscivamo nemmeno a immaginare.
E’ da questi stessi presupposti che parte Le cose che sappiamo romanzo di Frédéric C. Dévé, “nato in Francia, vive in Italia da molti anni” (Editoriale Artemide, Euro 16, trad.it. Renato Benvenuto).
Goethe e Borges, i due signori dell’ombra (sotto le querce di Buchenwald il primo, nel labirinto del sé il secondo), aprono l’abbrivio al sentiero del libro, fantasy in grado di mescolare il mito di Faust con il realismo magico del Centroamerica. Ci immergiamo in un’atmosfera soffusa, brina di primo porto, sui contratti di vita e di morte sfogliati da Hector Ruetcel, è lì infatti che si trova l’isola di Ometepe in Nicaragua, America Centrale. Ma per sapere cos’abbia a che fare questo romanzo, scritto dall’autore nel 1989, con il titolo Le Miroir du Charco Verde è proprio su quel lembo di pianeta che dobbiamo andare.
La prima parte del romanzo naviga per acque e fiumi di gente all’imbarco verso terre di speranza, un domani migliore, un addio a tutto ciò che siamo stati, come i Nomadi di John Steinbeck, è qui che Ruetcel si inizierà a domandare se gli animali siano alla stessa stregua esistenze pari, tali agli esseri umani, dotati di propria coscienza o, piuttosto, solo merce da traghettare all’altro mondo, in attesa di Caronte.
Il francese geografo partirà a bordo della Señora del Lago, qui si inizieranno a svelare le carte mentre le acque si confondono, e la biforcazione delle esistenze prenderà la rotta dell’Internazionalismo, i movimenti politici, i sentieri che prendiamo e quelli che invece ci lasciamo indietro. Come prendiamo le nostre decisioni? In base a cosa, restiamo in attesa. Di chi? Sarà così, con un salto d’anima che conosceremo il rivoluzionario Angel, e gli dèi del mare sanno quanto ne avremmo bisogno in questo inizio secolo di pandemie, guerre e nuove onde xenofobe e populismi vecchi e nuovi.
V’è una certa semplicità nel modo in cui Dévé narra le gesta di raccordo dei suoi mondi e personaggi. E forse è il criterio del linguaggio, il lessico un’isola sulla quale pure si formino i nostri pensieri e prendano forma.
Dal Mar dei Caraibi al lago Cocibolca, i due maschi (ecco, se c’è forse una critica di contemporanea da fare al romanzo, questa risiede nella “mancanza” di una vera protagonista femminile) passiamo alle piogge sul mais di montagna, fino alle radici stesse dei giganti di roccia, quelle montagne sotto le quali gli alberi vengono abbattuti dalla deforestazione selvaggia. Vi ricorda qualcosa? L’avidità e il prezzo che cresce al miglior offerente sul mercato nero. E che, alla fine, e pur partendo – chi scrive – dalla negazione di tutti i metodi coercitivi, come scriveva Mario Rigoni Stern: chi abbatte un albero andrebbe incarcerato, perché? Perché sono creature viventi che abitano sul nostro pianeta da molto più tempo di noi. E che ci resisteranno.
Sotto il vulcano Concepción – Cile – i lapilli fumano incendiari, come la Storia che prima o poi si infuoca e di volta in volta destituisce élite, l’una al posto dell’altra, mentre il popolo resta anonimo e indifferente rispetto a un potere che, viceversa, potrebbe essere abbattuto. La nemesi, la fine dell’albero.
Fitte reti di liane, charco le pozzanghere, grandi e piccole odissee, alghe, le storie a rivoli de Le cose che sappiamo ci avviluppano portandoci dall’altra parte del mondo. E così torniamo a Charco Verde, e alla Tobacco Company – forse una nuova Compagnia delle Indie? O, piuttosto, una potentissima organizzazione, una lobby, un gruppo di pressione (come quelle delle armi dei giorni nostri)? – un’azienda nordamericana che esporta vero tabacco “da cowboy”, la vendita di un’idea non del mero prodotto, base del neo-colonialismo capitalista che ci vende emozioni al posto dei semplici prodotti.
E’ qui che don Eugenio e Chaco Largo, i due compari che hanno venduto l’anima al diablo, al diavolo gestiscono i loro affari, la loro hacienda diffusa, che tutto può e tutto pervade. Le companies, il nuovo dio del profitto. Prati, maiali, cavalli, muli, villaggi, tutto cade sotto il giogo dei potenti. Anche se sarebbe più corretto parlare di dominio. Proprio come in epoca contemporanea, appunto. Ed è qui che la magia, nel punto più imo del reale, la costellazione delle distorsioni romanzesche, che il libro di Dévé, narratore per certi versi novecentesco, ci immette di nuovo sulla rotta del colonialismo: Cristi monchi, coccodrilli dorati, forme di formaggio, El Diablito figlio di Chaco Largo, il tè servito alla maniera inglese, hombre che si muovono tutte negli interstizi del commercio, lecito e non.
Si potrebbe leggere agilmente con sotto la colonna sonora dei Pirati dei Caraibi, questo romanzo, senza per nulla discredito alla storia ma, anzi, per la lettura spensierata che l’autore ce ne rende, pur affrontando temi complicati: la rivoluzione, anime in vendita e uomini in fuga da se stessi, un’indagine sulla deforestazione del mondo (persino nel suo doppio risvolto metaforico), le origini dei miti del Sud America.
Alla fine, non sapremmo dire se la realtà supera la fantasia o piuttosto, in Brasile, adesso, l’ex dittatore Bolsonaro sia stato deposto e il popolo, e tutti i popoli, dal Costa Rica agli indigeni delle foreste primordiali, saranno salvi. La deforestazione in Amazzonia fatalmente fermata.
Domani. Jugoslavia, Svizzera, Gerusalemme, Honduras. Contratti di vita e di morte, dunque. Come le monete d’oro scambiate, l’olio che ha unto gli ingranaggi del capitale, gli abusi in base ai quali i primi capitalisti si sono appropriati di terre e risorse, metalli preziosi.
Oggi che alcuni si fregano le mani pensando al surriscaldamento globale perché al fondersi della calotta polare potranno attraversare i mari della Groenlandia, Canada, Polo Nord, le insolcabili lande ghiacciate, come un tempo fu con l’Africa e l’India, così da cumulare ancora una volta altre fortune: “I soldi mandano l’acqua per l’insù”, dicevano i contadini della Maremma.
Dévé del resto, quando 30 anni fa ha scritto Le Miroir non sapeva che il mondo avrebbe strambato, invertito la rotta, e sarebbe tornato indietro sulla via della schiuma nera che ha sommerso il mondo così tante e tante volte. Ma restiamo sentinelle vigili, sembra dirci l’autore francese in Italia: marinai, come Hector Ruetcel “disposto a tutto” pur di salvare gli alberi e le vite degli esseri viventi, non solo del Charco Verde ma di più di questo meraviglioso, vasto, mondo che una volta avvistato chiamiamo: “Terra!”.