Cronache dell’acero e del ciliegio


Con il presente Camille Monceaux, autrice della tetralogia Le cronache dell’acero e del ciliegio (La maschera del Nō – Libro 1; La spada dei Sanada – Libro 2; L’ombra dello Shōgun – Libro 3, tutti editi da Ippocampo edizioni, trad.it. Fabrizio Ascari, siamo in attesa del Libro 4) ha molto di più che solo la giovane età o la volontà di essere in viaggio così da corrugare al meglio termini e parole, in modo da tradurle – con precisione e levità – in immagini.
C’è un che di “femminile” che si sta risvegliando in quest’epoca terribilmente chiusa, retrograda, populista, in crisi (non solo) ecologica: un denso sostrato di azioni che si stanno propagando dagli strati sotterranei della società e che rendono nuova linfa a movimenti repentini, a tratti neppure ancora catalogabili.
Tutto è più veloce, è vero, ma allora non solo la tecnologia; a volte si ha l’impressione che i vecchi, bolsi, patriarcali veterani del capitalismo commerciale, i Trump e i Bolsonaro e gli Orbàn, e gli emiri che pompano petrolio nelle vene siano nient’altro che l’ultimo colpo di coda di un sistema economico ridotto alla sua (ennesima) fine. Ecco perché scrivere un romanzo storico  – “politico” – ai tempi dell’Antropocene e delle Cop28 che finiscono in bicchieri mezzi vuoti e delle speranze infrante di un mondo finalmente consapevole dell’emergenza ambientale, ecologica, sistemica, forse persino sociale, può solo fare bene a noi lettori perché, forse: «avere ambientazioni ben fatte possa aiutare il lettore a viaggiare nel tempo», così risponde Camille Monceaux, classe 1991, mentre entrambi partiamo o torniamo dagli ennesimi viaggi che fanno bene perché allargano i confini, non solo quelli della mente, di più quelli del linguaggio, del mettersi in discussione, guardare all’altro con la sua prospettiva. Un esercizio a cui siamo disabituati, rinchiusi dentro i nostri schermi piatti (siamo oramai tutti, definitivamente, pericolosamente schermo-piattisti).

Il suo protagonista è un orfano, molti pensano che la contemporaneità sia un’epoca senza padri (dopo il XX secolo), quindi come ha deciso di rappresentare il suo protagonista maschile?
Beh, non dimentichiamoci delle madri! Una delle ricerche di Ichirô, il protagonista maschile dei miei romanzi, è infatti quella di scoprire chi fossero i suoi genitori, e devo dire che ho posto l’accento sulla figura materna più che su quella paterna perché vedo che molto spesso c’è un’ossessione per il rapporto padre/figlio, e le madri vengono completamente messe da parte. Gli orfani sono molto comuni in letteratura, è vero, sono un comodo tropo di scrittura! Aggiungono immediatamente un senso di mistero, un grande punto interrogativo sulla testa del protagonista, e poi c’è la domanda: al protagonista interessa quel punto interrogativo? Se scopre la verità sulla sua identità, questa identità lo definisce? Per quanto riguarda il ritratto del giovane personaggio maschile, per me era molto importante mostrare la sua vulnerabilità, la sua gentilezza. Non volevo scrivere la storia di un ragazzo che diventa un samurai e il più forte combattente con la spada, uccidendo tutto e tutti sul suo cammino di vendetta. Quello che volevo esplorare era la profonda diffidenza che Ichirô prova nei confronti di qualsiasi tipo di violenza e di uccisione. Poiché il Giappone era ed è tuttora un Paese buddista, con una filosofia che proibisce l’uccisione di qualsiasi creatura vivente, ho pensato che fosse un tema da approfondire. Non dobbiamo dimenticare che la figura del samurai incarna un tipo di mascolinità tossica e che dovremmo sempre mettere in discussione la glorificazione della violenza e delle armi.

Una nota sullo stile con cui scrive i suoi romanzi: c’è una traccia di poesia dietro ogni frase, è così? E cosa comporta questa metrica, questa sillabazione nella costruzione delle frasi?
Ho imparato ad amare il Giappone attraverso la sua bellissima letteratura, e più precisamente attraverso la letteratura classica del periodo Heian, con scritti incredibilmente belli (diari, romanzi, poesie), scritti da membri della corte imperiale e soprattutto da donne. Quindi, porre l’accento sulla poesia anche se scrivo in prosa è stato un modo per rendere omaggio a quella tradizione letteraria. Inoltre, il Giappone ha una tradizione molto forte di narrazione orale. Sentivo che, sia per le descrizioni che per le scene d’azione, l’aggiunta di un po’ di poesia, di un senso del ritmo, persino di qualche rima, poteva cambiare la struttura della prosa e trasformarla in qualcosa di fortemente avvincente. Con la poesia, il potere dell’evocazione è maggiore. Per farlo, leggo e riscrivo, leggo e riscrivo molto, spesso leggendo ad alta voce per provare il ritmo delle frasi.
Senza fare spoiler, uno dei temi trasversali della saga è la speranza. Ha speranza per il futuro, in un’epoca come la nostra in cui l’Antropocene sembra aver compromesso la possibilità di un domani per la razza umana? E che tipo di autore si sente di essere: più politico (Orwell) o più semplicemente un autore che cerca di raccontare una storia (Miller)?

Ho un rapporto molto ambiguo con la speranza. Penso che abbiamo bisogno di speranza per continuare a lottare, ma la speranza a volte può essere accecante e impedirci di agire davvero (per esempio la speranza che le tecnologie, o le giovani generazioni, ci salvino). Anche se i miei romanzi sono fiction storiche ambientate nel XVII secolo in Giappone, vengono letti da persone che vivono al giorno d’oggi. Attraverso i miei personaggi parlo a queste persone vive e la mia speranza (eccola qui, ancora una volta) è quella di dimostrare che possiamo sognare in modo diverso. Forse possiamo smettere di sognare di diventare forti, ricchi, potenti e dominanti. Forse possiamo iniziare a sognare di rompere i ruoli di genere, di rompere il basso profitto, di rompere il ciclo di oppressioni che grava sia sugli esseri umani sia sulla natura. Sembra tutto molto ingenuo, ne sono ben consapevole, ma lo scrittore francese Pablo Servigne ha scritto che noi scrittori dobbiamo costruire nuove storie per far sì che il cambiamento avvenga, e quindi questo è tutto ciò che sto cercando di fare, al mio umile livello. Quindi credo che questo mi faccia rientrare nella categoria dei politici, giusto?
Francia-Giappone: cosa c’è dietro questa scelta, perché ha voluto tornare al XVII secolo, per affrontare quali demoni o quale nucleo tematico?
Ho voluto esplorare l’inizio dell’epoca Edo (l’antica Tokyo ndr), perché è un momento in cui la società giapponese conosce enormi cambiamenti. Il ruolo dei samurai, il sistema delle caste, i diritti delle donne, tutto viene scosso nel profondo dallo shogunato Shokugawa. Per quanto riguarda il mio amore per il Giappone, mi è caduto addosso un giorno e da allora ha continuato a crescere. Non so quali siano i miei demoni, ma uno dei miei temi centrali è sicuramente la maschera / la nozione di identificazione. Chi siamo veramente? Possiamo trascendere il nome, il sesso/genere, la classe sociale in cui siamo nati e a cui siamo stati assegnati? L’educazione che ci è stata impartita ci definisce? Le strade che gli adulti hanno scelto per noi sono davvero quelle che vogliamo seguire? Spero che questo risponda alla sua domanda.