Cambogia reportage blogdiary 7


Sono arrivato a Chi Phat, sono in mezzo al Golfo del Siam, a sud est c’è Ho Chi Minh, capitale del Vietnam, a sinistra il mare delle Andamane thailandese, poco più sotto la Malesia: qui il mio amico Nicola, lettore accanito di Salgari, sarebbe nel suo habitat ideale.

Mentre scrivo un geco manda il suo richiamo onomatopeico (che fa proprio “ghé-coò”). Sono in questa comunità montana alla base dei Monti Cardamomi da nemmeno due ore e ho già visto i bufali d’acqua, in lontananza sento il rumore dei motori dei barchini.

Mi trovo ospite di una piccola base prima delle foreste, le più grandi dell’Asia centrale. Google Maps però non riesce a calcolare quanti km sono lontano da casa.
Capanne e motorini, bottiglie di plastica e donne anziane che governano le mucche, agli angoli delle strade i bambini salutano, c’è un matrimonio tradizionale dove un ragazzo mi invita a entrare, ma ho appuntamento con il centro delle guide con le quali domani andrò a fare il trekking sui monti.

I livelli di plastica sono alti anche qui però, bottiglie nei fiumi profondi 10 metri, meduse bianche d’acqua dolce galleggiano verso la superficie, ogni tanto spuntano dal folto le casette per il bird watching.
Non ho molto tempo per scrivere il blogdiary sono già quasi le sei di sera e da queste parti si cena presto, i ritmi sembrano lentissimi a noi occidentali eppure viene da seguire l’ombra sulle palizzate, la polvere rossa ai bordi delle stradine.
A 3 km dal villaggio c’è un’ansa, piccole cascatelle scendono verso valle, le pietre sono arroventate dal sole della giornata.

Anche oggi 34°C, umidità al 90%, sull’amaca però si alza un po’ di vento, e dopo la doccia la pelle respira di nuovo. I galli cantano di sera, anche qui, scambiano il tramonto per l’alba.
La giungla fa suoni di uccelli e cicale, intermittenti, si muovono gli scoiattoli fulvi sui rami in alto degli alberi, giocano, saltano sulle palme correndo sui fili dell’elettricità che non deve essere arrivata da molto, gli sguardi per chi viene da lontano sono incuriositi, gentili.

Prima sullo sterrato ho visto che stanno costruendo anche qui una specie di hotel a tre piani, che stona con le case palafitte, il porticato sotto dove ci si ripara dal caldo umido e sopra si dorme, al fresco che manca invece a livello strada.

Phnom Penh era a 12 metri s.l.m., qui passano farfalle colorate, gialle, viola, grandi come rondini. Mi tengo la voce del mondo vegetale, il ritmo pacifico di questa comunità di pescatori e piccole botteghe, il vento struscia fra le canne di bambù mentre i grilli si preparano per la notte stellata.
La ragazza che mi ospita ha appena acceso le luci nella piccola casina di legno fuori dal mio bungalow: “orkurn”, in khmer significa, grazie.