Cambogia reportage blogdiary 6


Phnom Penh è come tutte le metropoli del mondo: tutto costa il doppio e decade il principio della convenienza. Se venite qui preparatevi, non allo sgarbo delle città occidentali, ma nemmeno a essere accolti dalla gentilezza del nord.
Il traffico morde sulle strade anche alle 8 del mattino, in direzione del Palazzo Reale dove attualmente risiede il re Norodom Sihamoni (si dice viva in modo piuttosto modesto, dedito alle arti, non ama essere alla ribalta delle cronache ndr), figlio a sua volta del re Norodom Sihanouk che seppe trattare con i francesi l’indipendenza della Cambogia.

Costruito dal re Norodom nel 1866 sul sito della città vecchia – Phnom in cambogiano significa “collina” e Penh era, invece, il cognome della ricca signora che qui, alla confluenza dei 4 fiumi (tra cui il Mekong), trovò i 4 Buddha propiziatori per l’edificazione della capitale; di rilievo, nel palazzo i dipinti originali che illustrano il ciclo dell’epopea del Rāmāyana, con le guarnigioni del dio-scimmia Hanuman che aiuta il dio Rama (avatar di Visnù) a liberare la consorte Sita dal malvagio re Ravana.

Sempre nel palazzo, la Pagoda d’argento si chiama così perché conta – appunto – un pavimento di 5000 piastrelle d’argento. Poco distante si può fare visita alla Champey Academy of Arts dove vengono impartiti gli insegnamenti delle arti – disegno, musica e danza tradizionali delle Apsara, le danzatrici celesti – a studenti tra gli 8-20 anni (l’Accademia è gratuita per gli studenti poveri).

Nella stessa area, si passa per il Museo del genocidio di Tuol Sleng (chiamata anche “prigione S21”, il numero 21 che ricorre tristemente).
Questa prigione era una scuola superiore, che venne utilizzata come prigione dalle forze di sicurezza di Pol Pot, divenendo il più grande centro di detenzione e tortura durante il dominio dei Khmer Rossi.

La storia politica della Cambogia è relativamente recente, intrecciata con i “vicini coltelli” Vietnam, Thailandia (che nei secoli ha assorbito alcuni territori proprio dai vicini cambogiani), Siam.

Mi viene alla memoria il film di Angelina Jolie, torna ancora una volta la star di Hollywood che, dopo il successo, ha adottato un bambino cambogiano, acquistato una casa nei pressi di Battambang con annesso un pezzo di foresta, così da preservarla, e che proprio sul genocidio dei 2,5 milioni di cambogiani uccisi dal regime dei khmer rossi ha voluto girare il film su Netflix, Per primo hanno ucciso mio padre.

Dopo il giro in uno dei pozzi dell’animo umano (entrare nelle celle con le catene, i letti vuoti, le stanze della tortura, i volti delle migliaia di uccisi – bambini, donne, vecchi – leggendo le assurde leggi della dittatura, non si può fare altro che camminare in silenzio.

La visita al Museo Nazionale vale il prezzo del biglietto (intero 10 dollari, bambini sopra i 12 anni pagano 5 dollari, sotto i 12 anni gratis): ma ci sono i volti e le statue trafugate o semplicemente trasportate qui, nella capitale, dai templi del nord, statue di Buddha, di Hanuman e Shiva, i grandi depositi con le selle per gli elefanti a dorso dei quali si muovevano i reali, le divise e le spade degli alti ufficiali, le colonne di pietra e i portali di legno risalenti al X secolo d.C. in un mix di arte pre-angkoriana, angkoriana e post-.

Un po’ di bellezza per scacciare le ombre. Infine, di nuovo un tuffo nel traffico urbano si arriva al mercato russo, dove tra il labirinto di vicoli di uno dei più importanti mercati aperti di Phnom Penh ci si può perdere e distrarsi, e per qualche tempo fare finta di dimenticare l’assurdità e la ferocia umana.