Vi sono lucciole e lanterne, bambini cervo, creature alate, alla fine del mondo conosciuto l’orizzonte brilla, piombo, caustico e crudele.
Camminano le ragazze sotto i rami, nessun ultimo uomo le ghermisce, così vanno creature silenziose, a piedi nudi, assieme al vento e gli scoiattoli, mentre gli ibridi danzano, è il tempo dei folletti, sopra le braci del tempo.
Ciò che compie Francesca Matteoni con la sua intera produzione – qui in particolare, i suoi Appunti dal parco (Vydia Editore, €13) e il più recente Tundra e Peive (nottetempo, €16,50) – è un lavoro di traduzione e affinamento.
Matteoni (della quale avevamo già recensito qui Io sarò il rovo, effequ) è una delle|degli autrici|autori migliori della sua generazione, una scrittrice pura, che fa della metafora e dell’empatia subcontinenti, attraverso una mescla ritmica e poetica, in grado di creare un personalissimo stile narrativo: descrizioni brevi slittamenti semantici, incisi assoluti, frasi distese, naturali. Una geografia composta di sillabe e rami, parole; per Matteoni la vita segreta dei viventi emerge dal terreno, dalle illusioni e i folletti di un bosco di bellezza e desideri.
Gli Appunti dal parco (con la postfazione di Cristina Babino) raccontano la primavera della rinascita dell’autrice: è l’ottobre del 2007 a Brockwell Park e Matteoni – nata a Pistoia nel 1975 – si muove in cerca di una traduzione possibile fra mondi che ancora non comprende appieno, perché misto è il linguaggio del mondo e per comprenderlo bisogna parlare la lingua sotterranea delle ombre, le depressioni carsiche dei sentimenti, l’intensità perduta nei frammenti di memoria; la prima volpe magica avvistata in terra natìa, laggiù spiccano i campi di grano d’una Pistoia dell’infanzia, si intrecciano così al vivere quotidiano, è la Londra mitica di un corpo adolescente che diviene adulto, il vissuto si scopre come una serie di scorci dis-urbani, architetture agresti, gli Appunti sono un testo composito di brevi folgoranti intuizioni, poesie per immaginazione, affiorano le letture shakespeariane, i colori del romanticismo inglese, affreschi naturalistici e sonetti – è la memoria del vissuto: Hyde Park e Figure 8 in sottofondo (mitico album del bardo di Los Angeles, Elliot Smith) ci si muove fra betulle e aironi, le code elettrizzate degli scoiattoli sotto il temporale, Bloomsbury, l’infanzia.
Nella nuova edizione in libreria, v’è poi l’aggiunta di una serie di scritti datati fra il dicembre 2020 e l’aprile, il più crudele dei mesi, del 2021). Se la prima parte degli appunti è legata alle impressioni, alla corteccia della giovinezza, questa seconda parte titolata Paesaggio appare invece concentrarsi sull’aria che occorre a gonfiare i polmoni, in quell’esercizio quotidiano e magico che filtra e respira sotto la rugosa superficie del dramma d’esser vivi. Parole più pesate e leggére, scorrono donne avvoltoio donne aironi donne scricciolo combattenti, quasi l’autrice volesse suggerire la crescita di sé, dell’esser donna fra gli umani in giorni violenti: mai il più delle cose quanto la loro sottrazione, il contesto nel suo piano di interpretazione di ciò che chiamiamo, realtà, costituita da con-testi ovvero “scritti insieme”, quasi Matteoni ci suggerisse l’impossibilità di vivere soli, condividere, rinascere.
I protagonisti di Tundra e Peive sono invece personaggi cosmici, inappartenenti transitori di una terra plurale, ferrosa e mineraria: Tundra è un folletto, Peive un gatto.
Se però Bulgakov nel colorato circo de Il maestro e Margherita faceva atterrare il diavolo saltimbanco sul pianeta Terra, qui le foglie galleggiano nella tarda primavera, è un vento d’inizio che soffia novità.
L’eco delle tempeste passate – ma chi parla, un bambino, un albero, l’orsa? Chi parla in queste storie musicali – Matteoni dalla parte del Vivente, sono storie in cui i personaggi sono gli animali, e qui c’è tutta la carica e l’empatia della poeta – fremono nel pulviscolo: i folletti ascoltano musica punk (I Don’t Wanna Grow Up cantavano i Ramones: “roba da emarginati”), le oche prendono la via del cielo, così gli ontani, quelli di Matteoni sono mondi in migrazione.
La ribellione striscia sottocutanea nel mondo di Tundra e Peive: i lampioni si spengono mentre il rosso scialbo tinge il paesaggio, e il profilo della città prossima a deflagrare s’infiamma, fuochi fatui di una terra che mangia acqua sostituendola al cemento; è ciò che stiamo compiendo da almeno un secolo, è il non tempo della razza umana, e Matteoni un’autrice che utilizza la metafora come atto di denuncia: dove stiamo andando precisamente, ci chiede li meta-narratore, il metà-narratore umano, Matteoni è ella stessa una demi-autrice nel senso nobile del termine, metà parte umana metà natura animali, piante, anima. Anche qui (e in tal senso questo romanzo si pone in continuità agli Appunti) v’è una donna che passeggia in un parco, sotto gli Antichi, all’imbrunire, su tutto aleggia lo spirito degli alberi alla Corte dei Corvi.
Tundra e Peive è un anime di Miyazaki, “un sogno fatato, senza risveglio. Un brusio di secoli, tenace” scrive Matteoni mentre le bacchette magiche sistemano le stoltezze degli uomini che si sono allontanati dal nucleo incandescente di bìos e zoé, la vita esistente e la vita accomunata, questo cumulo di istanti che condividiamo, pane spezzato azimo e congruente. Ortica, betulle, biancospino, saltellano le storie come apparizioni fugaci, Malaspine, Cavadosso, Erbalucciole. Sono parole-tronco e mistura, quelle di Matteoni, poiché questo fa la letteratura: crea mondi immaginari, dove s’aprono squarci della nostra realtà, e là dove Madre Orsa difende i cuccioli nessuno ci potrà più far male. Né l’uomo né la sua smania di controllo del mondo vasto e fremente.