Milano alle 4 del mattino sono i Crash Test Dummies mentre sfili sulla provinciale. La fila chilometrica ai gate all’ingresso di Malpensa, nonostante si sia ancora in tempi di covid. La mascherina che pensi di dover indossare e invece puoi anche non farlo a bordo.
Arrivati all’aeroporto internazionale di Napoli c’è il primo brindisi alle 9.55 del mattino.
Del resto è il volo di inaugurazione di easyJet: Napoli-Lampedusa, dopo scoprirò piuttosto importante, se si vuole arrivare a “destagionalizzare il turismo”, come mi hanno detto Ezio e Simone (dopo ne parliamo).
L’arrivo a Lampedusa – 80 miglia dalle coste africane, 6.000 abitanti in totale – taglia gli occhi al primo sguardo. Bianca, calcarea, il mare azzurro, celeste, blu fondo.
Conosciamo l’isola per gli sbarcati, gli esuli, i profughi in mare, i rifugiati dalla guerra. Non vediamo la terra però, non ne riconosciamo la profondità, del mare e dei modi di chi questa isola la vive, la vede, la misura ogni giorno, sopra e sotto costa.
Ezio ci viene a prendere all’aeroporto, dopo i saluti del sindaco neo-eletto, con Gualtiero ci siamo già raccontati mezza vita in poco più di 3 ore, per questo stavamo perdendo l’aereo da Napoli, non per il brindisi mattiniero.
Ezio è il titolare de I Dammusi di Borgo Cala Creta, un complesso di piccoli edifici bassi, edificati a pietra secca, il dammuso pantesco qui è diventato l’opera d’arte di un mastro che 50 anni fa non ha rispettato i disegni originari, si è fidato delle pietre. E Lampedusa è tutta così. Ti devi fidare della roccia, del lentisco lungo via, il rosmarino a bordo strada, i cespugli di timo, le strane piante che trovi sotto costa e che sembrano ribes, melograno.
A pranzo da Tommasino, storico locale sulla spiaggia della Guitgia, Giandamiano è il figlio del Tommasino che recita la preghiera laica del pranzo: polipo e patate, vino bianco siculo, verace, pranziamo su una veranda che sembra uscita (anzi, “susuta”) da Camilleri, da un momento all’altro di aspetti Montalbano che fa bracciate al largo prima di rientrare a mangiare pasta con il nero di seppia.
La vera lezione ce la dà Federica, che tra le altre attività fa anche la travel blogger, vegetariana in tempi in cui forse sarebbe opportuno fare scelte etiche.
Con una jeep d’altri tempi poi Ezio ci accompagna lungo il periplo dell’isola. Incrociamo allora la vecchia base militare americana, adesso un faro, a strapiombo sul mare, tutt’intorno gariga: vegetazione rada, desertificata, il vento qui arriva da maestrale, scirocco, grecale, termini che non sentivo da tempo, anni forse, cipuddazza ovunque, le cipolle che non mangiano nemmanco i conigli (e dopo andremo anche a vedere la spiaggia dei conigli, oggi per fortuna Riserva che ospita al max 1.000 persone al giorno nel periodo di picco estivo).
Incredibile pensare che qui un tempo – racconta Ezio – fosse tutta selva, foresta, lupi, camosci, cinghiali. Un bosco che i primi abitanti abbatterono per fare spazio all’uomo. L’habitat, è sempre tutto maledettamente lì. Quale lo spazio per l’uomo sul pianeta Terra.
Poi però superi Aria Rossa, che rimanda all’Orlando Furioso perché qui pare si combatté la fatidica lotta 3 contro 3 tra i paladini, superi acacie e piante di carruba basse, fino al punto più alto, Albero Sole dove – nonostante la nebbia che sale per il caldo dal mare – intravedi (o forse è solo un miraggio) Linosa e Lampione, l’isoletta dove si riproducono gli squali grigi di cui pure parleremo più tardi con Simone D’Ippolito, storico sub che ora, insieme al socio Rocco, è titolare del Pelagos Diving Center.
C’è tempo per guardare il mare profondo, e i gabbiani, sedersi perfino su una panchina messa qui perché tra febbraio e marzo da queste parti passano le balene, le madri con i “piccoli” e allora per guardare lo spettacolo delle code che si abbattono sull’acqua, il krill che schizza sopra le onde e finisce tra le fauci dei cuccioli di balena, bisogna mettersi comodi. A rimirare l’orizzonte. E forse scoprire che rotta prendere, non solo in termini di direzione. A livello politico, sociale, quali scelte fare, se camperizzare un furgone e andare alla scoperta del mondo, come la blogger polacca di cui ora mi sfugge il nome ma non il senso: andare nei fronti di limite, le faglie del presente, Afghanistan, Pakistan, vivere un luogo, stare con chi lo abita, smetterla di scegliere le 5 stelle di un’esperienza finta, voltarsi infine verso un modo di vivere plastic free. Nei pensieri. E nelle scelte di ogni giorno.
Passiamo il 35° parallelo, lo stesso che c’è a Teheran, anche se in Iran c’è la neve e qui, oggi, 30°C.
Più avanti il faro di grecale, sulle falesie ci nidifica il falco della regina da queste parti.
Sotto, tra le rientranze, grotte, te ne rendi conto solo dopo qualche tempo che sei nelle Isole Pelagie. Il più a sud d’Italia. Siamo a due passi dalla Tunisia, qui un tempo i pescatori commerciavano in spugne, e poteva pure capitare che due fratelli italiani uno restasse qui, e l’altro invece emigrasse verso le coste tunisine, colonia francese.
E in effetti, non è più placca eurasiatica qui, sei quasi sulla piattaforma carbonatica africana, la stessa flora, la medesima fauna: lucertole striate, serpenti, endemismi vegetali.
Dell’Isola dei Conigli, 35 ettari di costa, il cui nome probabilmente viene da un errore su una mappa inglese dove era segnata come Rabat Island, derivata ovviamente in “Rabbit” Island, e da lì il resto non lo fa mai la Storia ma sempre il modo in cui viene raccontata…
Arriviamo a mezza costa con Elena, che da Torino è venuta qui oltre 10 anni fa, e qui vive adesso, d’inverno quando non c’è nessuno e in estate, in questa stagione, a far capire ai turisti che le spiagge, anche quella dei “conigli” (una delle più belle di Lampedusa) è una lingua di terra dove le tartarughe marine vengono a deporre le uova, e allora ogni mattina all’alba Elena e gli altri di Legambiente Sicilia puliscono, tracciano, individuano il luogo dove le mamme tartaruga vengono a depositare il prezioso carico e, con cura, isolano il luogo, lo rendono sicuro.
Qui si può venire solo dalle 9 del mattino alle sette di sera, o giù di lì, domani controlliamo meglio.
Per strada poi incontriamo, O’Scia, ci racconta Ezio, che deriva a sua volta da “o sciauro”, che in siciliano non significa solo “l’odore” ma, di più, indica l’impronta, l’odore appunto, che ciascuno di noi lascia nell’aria, quanto di te lasci nel mondo allora, l’anima, nel tempo.
Ogni cosa in questa terra emersa sembra provenire da una profondità inaccessa. E qui le chiacchiere con Simone e Rocco, prima del diving di domani, usciamo con un caicco, domani, per andare a vedere pesci. Noi li vedremo di superficie, Simone ci racconta invece degli squali grigi che vanno all’isolotto di Lampione, una sorta di nursery, oltre quella di Messina che alleva invece squali bianchi, ma: “I veri predatori siamo noi” dice lui, che fa il sub da 40 anni. Rocco è più giovane, è maestro di immersione, sub anche lui, ma con il rebreather, un macchinario che permette di non fare bolle mentre si è in immersione, dunque non dà fastidio all’ambiente naturale, né ai pesci: da qui potrebbe nascere un nuovo interesse biomarino, costiero e di ricerca, un tipo di turista appassionato, più consapevole delle meraviglie del mondo.
La cena al ristorante dell’hotel nel giardino arabo, ulivo al centro e lampadine, Grillo e cous cous, parla di territori in mare e incontro fra popoli. Isole che, da sole, raccontano l’incrocio delle culture.
A domani per la puntata 2.