Ruthie Fear

Ruthie-Fear
Esce domani per le Edizioni Black Coffee, Ruthie Fear (trad.it. Leonardo Taiuti, € 18) romanzo d’esordio di Maxim Loskutoff. Come la giovane protagonista del suo libro, anche l’autore vive tra le Montagne Rocciose del Montana.
Forse per questo, Loskutoff affida la vicenda di Ruthie a personaggi granitici: quando viene al mondo, suo padre Rutherford uccide un lupo bianco enorme, lo scuoia e ne fa un tappeto sul quale la bambina dorme e si riposa, zanne accanto “il lupo appariva insieme furente e confuso”, come la breve esistenza di Ruthie. Vento tra le rocce, appunto, e denti affilati.
Animi duri, scorze temprate da albe livide, ghiaccio e canyon. Ci sono spettri d’alta montagna, il white out che costringe a chiudere gli occhi, bufere e tempeste dentro le quali non si perde solo la bussola di stare al mondo, di più l’anima. E a fiorire intorno non sono i semi della Natura, quanto il selvatico di ogni creatura.
Loskutoff ha il pregio nella scrittura di andare dritto al punto: uno stile per sottrazione, ruvido abrasivo, è così il lessico che impara Ruthie: l’accetta serve per tagliare gli alberi, il bosco è una risorsa, ma allo stesso tempo è creatura viva, pericolosa.
L’autore conosce bene i luoghi di cui parla, te ne rendi conto quando descrive le curve dei fiumi, la schietta vicinanza del padre e della bambina, residui d’esistenza che si fanno forza a vicenda. Ma che forza devi avere se cresci alle radici di Trapper Peak, “la cima più alta delle Bitterroot”?
Le creature mangiano, si nutrono, deformano i corpi delle prede all’azzanno. Non c’è elegia della natura nella forma-romanzo di questo autore del Montana, a ogni descrizione l’orrore della morte diviene normale routine del quotidiano.
In una vita ridotta all’osso, in Ruthie Fear (“fear” come la paura) il confronto con la morte non è mai rimandato e il tempo scorre per vibrazione, per restare in vita ogni essere deve prima guardare in faccia ciò che sappiamo tutti, anche se facciamo finta di niente. Domani non esiste. Esiste un destino per ciascuno, e quando tocca, tocca.
“Una creatura nel canyon” diventa per Ruthie il confronto tra l’esperienza incredula di suo padre e le “stronzate” che le insegna la maestra: l’immaginazione che a sei anni le fa vedere il mondo per quello che non è, mentre Rutherford – incisivo mancante, labbra screpolate, guance arse dal sole – vuole solo che la sua bambina sopravviva.
Ruthie orfana di madre, diafana di gentilezza, fucile in mano la bambina impara però a osservare la costellazione della landa entro la quale si inscrive la vita piccola degli esseri umani (formiche rispetto i giganti di roccia) insieme alle fiere aquile dal collare, che scrutano la vita dall’alto, e i cervi, e l’acqua dei fiumi in rivolta.
“Sin dai tempi del primo insediamento bianco al forte di John Owen, gli abitanti della valle facevano l’impossibile per domare il territorio in cui sorgeva”. Domare, questo verbo transitivo che aggiunge piante native a seghe circolari, motori degli uomini e leggende.
Questo è il motivo per cui siamo ancora qui, sembra dirci l’autore di Ruthie Fear che mentre continua a cercare la creatura che è certa di aver visto, cresce appostandosi: è così che vede il corpo di June Breed nudo, la donna che anche lei un giorno potrebbe diventare. Eppure non v’è alcuna indulgenza né anelito in Loskutoff, persino i corpi guardano l’altro (rivale, un etimo appena che proviene da rivus dall’altra parte del fiume) per comprendere se stessi, puro istinto ferino.
Le stelle sotto le quali Ruthie si addormenta, stelle vivide, presenti, astronavi o spavento, paura della notte, le stelle brillanti persino, sono una prova per la bambina che passa “quasi tutto il tempo da sola”. E noi, invece, quando è stata l’ultima volta che abbiamo fatto qualcosa isolati? Senza nessuna presenza di conforto intorno?
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Eppure, in un certo modo, questa fiaba di Loskutoff (fisico à la David Foster Wallace, egli stesso pare appena uscito dal cast di Into the Wild) appare contemporanea e struggente.
Attraverso la sua protagonista, l’autore ci fa persino invertire il senso delle favole: “Che cosa volete diventare da grandi?”, chiedono le maestre, la società civile, ai piccoli a scuola: “Un lupo”, risponde Ruthie.
Cappuccetto Rosso qui è lo stesso animale che dovrebbe inseguirla, l’uomo e l’animale, l’uomo è l’animale. In mezzo la pioggia, il cratere di fango, sottosuolo tellurico, di un futuro barcollante e incerto come i passi della bambina alla ricerca della creatura “tra rovine coperte di erbacce”. Resti di una vita da ricercare.
Ci sono poi terremoti e tornado, pick-up che escono di strada e alberi caduti. Il collasso climatico è in corso.
L’hard rough della provincia americana, che non si fida della politica né della scienza ma solo delle stagioni. Vite contadine per le quali tutto è transitorio, le nuvole che si addensano come la vita brulicante degli oceani, le acque dei mari e il mondo sommerso dalla plastica, e Ruthie – che pure odia le anatre – ma quando lo viene a sapere, una bambina appena, vorrebbe dar fuoco al mondo.
Ruthie Fear è un libro darwinista, vince il più forte, e sottile; una trama dritta per un autore naturalista, sul solco di John Muir, l’Ovest americano un personaggio aggiunto, metafora del nostro mondo in estinzione, e Loskutoff che incendia l’animo del lettore con la parabola di una femmina d’uomo che da bambina diviene donna.