IL NOME DELLE COSE – 3. Dislocati nell’altrove

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Dove siamo?
Persino mentre scrivo questo pezzo controllo Facebook, le mail, faccio refresh sull’online di Repubblica, Guardian, Washington Post, Jacobin Italia.
Non riesco a concentrarmi per più di un’ora di fila. Rimango alla superficie delle cose. La condanna delle nostre generazioni, di questi tempi. Non si scende più.
Siamo forzati a rimanere a galla anche se tutto affonda. E, che tutto stia affondando, è oramai evidente da anni.
Tempi di crisi e bolle speculative, post e verità alternative. Deficit di civiltà, deficit di bilancio.
Sul mercato editoriale, i prezzi degli articoli ai minimi storici. Una professione diventata obsolescenza non economicamente giustificabile.
Dalla nascita di Internet, il grande equivoco è che tutto ciò che è in Rete deve essere gratis. La colpa però ancora una volta non è del sistema. È nostra. Dei consumatori di cose.
Niente è fondamentale nella società dell’iperconnessione, dell’esubero informativo.
Non è neanche più vero come sosteneva Andy Warhol che avremo i quindici minuti di celebrità e questo ci renderà appagati – i talent show arrivano alla decima stagione, sempre uguali a sé, è la forma replica che crea replicanti – la mancanza di discesa sotto la superficie fa galleggiare i prezzi, e così non siamo più uno ma molti, sottopagati.
È la società al ribasso. Il nuovo credo del Mercato. E l’Esercito industriale di riserva dei lavoratori aumenta la discrepanza, la crepa. Suolo e territorio dei nuovi rapporti di forza.
L’utilizzo del termine “bene” è avulso, ormai, persino dal contesto economico, ove il bene rappresenta una quantità a cui corrisponda il “giusto” prezzo.
Il capitalismo non si regge più sulla Legge della domanda e dell’offerta. Sono rimaste le impalcature arrugginite di un sistema vecchio che non vuole abdicare e cerca disperatamente di aggiornarsi, e siccome non riesce, o è più comodo andare avanti senza mai fermarsi veramente sul presupposto che lo tiene in piedi – Thomas S. Kuhn l’aveva detto ne La struttura delle rivoluzioni scientifiche, che la scienza compresa la cosiddetta Scienza Economica è faticosa quanto la terra è bassa – mantiene lo status, e i connessi vantaggi, dell’aristocrazia tecnologica.
Ulteriore conseguenza dell’abbassamento dei prezzi e della dislocazione è che tutti possiamo essere, fare, commentare tutto.
Nessuno rimane più confinato entro la corniche del proprio àmbito, eppure: «Una vita basta a malapena per diventare bravo in una cosa», direbbe fumando Rustin Rust Cohle in True Detective.
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Invece.
Sui social, possiamo permetterci di fare ironia a bassa tensione, facile anonima leggerezza, a screditare, simpaticamente, il lavoro altrui.
Sui post le chiacchiere sparano a zero. Rimbalzano fucili nel nuovo spiazzo deputato all’agorà online, gogne pubbliche in cui tutti sembriamo molto più intelligenti, sicuri, di quanto siamo. Un’esibita nonchalance fino a doverosa correzione contraria.
Dopo il Secolo dei Lumi, oggi dietro la mascherata retro-illuminata dei nostri schermi ci sentiamo forti, senza mai davvero comprendere; che poi si venga pagati sempre meno e il “tempo di esposizione pubblico” sia aumentato, che non vi sia nemmeno più il rientro tra l’impegno, il tempo di lavoro, e il corrispettivo economico, poco importa.
L’altrove ci garantirà nelle nostre incursioni digitali, il nostro comodo criticare il risultato di un’ironia che alla lunga forse stancherà anch’essa (i dati sull’uso di Instagram da parte delle nuove generazioni), e allora cosa rimarrà dentro la scatola vuota dei nostri commenti. Quando un giorno moriremo?
Faccine, e un account incancellabile.
Non più il ricordo di noi, ma del nostro avatar.
L’altrove è il luogo della pre-adolescenza.
Un lì-e-dopo che ci garantisce l’anonimato emotivo.
Il retaggio culturale di una società estinta.
Siamo oramai arrivati alla settima estinzione di massa, e non abbiamo ancora imparato.
L’altrove è la distrazione dall’unica fine vera: la nostra.
Sigmund Freud parlava di pulsione di morte: anche se mi spaventa, anzi proprio in virtù del fatto che la morte mi spaventi, ne sono attratto inconsciamente, in maniera sottocutanea, naturale nella misura in cui al mio estinguersi subentreranno altre forme di vita a prendere il mio posto: è la legge della conservazione della massa di Lavoisier, Nulla si crea nulla si distrugge tutto si trasforma.
Tutto ciò che ruota attorno alla vita umana ha una scadenza: il latte, i documenti, la pazienza persino. Eppure crediamo rimarremo immortali, mentre le supernove continuano a collassare e i pianeti della nostra galassia girano attorno al Sole.
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Siamo una società adolescente, immatura, avventata.
L’altrove è la prossima puntata, il nostro essere continuo in un mondo che non vedremo.
La morte è il centro oscuro dell’esistenza. E però, se mi condanno, attraverso la tecnologia, a essere dislocato, non sono ora e qui ma dentro il mio smartphone, se dunque non sono dove fisicamente mi trovo, allora la morte non riuscirà a raggiungermi, proprio perché se non sono come posso non essere più.
Mi sono già garantito un limbo.
L’altrove è un sistema premiante, una contrattazione al ribasso tra l’emotivo e il quotidiano. È la protezione di riserva innescata da un sistema in costante failure che viene aggiustato sugli errori precedenti ma mai riprogrammato.
Ci teniamo un vecchio modello e lo rimettiamo in sesto ogni volta. A suo modo, è una logica di riciclo.
Inoltre se non ti ascolto totalmente è solo perché mi tengo informato, non sono assente. E non è solo perché non mi fidi, ma perché il mondo è cattivo e la motherboard di tutte le fake news sempre attiva.
La Rete è la Grande Madre.
E la dislocazione non è un inferno, ma un purgatorio dove poter fare ammenda senza passare dall’assunzione di responsabilità.
Si può rispondere alle mail persino mentre guido, non c’è tempo.
I giorni una corsa costante che pregiudica il risultato e aumenta l’ansia, tanto c’è la medicina alternativa, i rimedi di salvaguardia.
Nel crash siamo diventati io-altrove ignari di ciò che è reale, e di cosa invece non lo è.
Creature immaginarie nel sogno di un dio dormiente.
Puntini all’interno di un mondo fatto di lamiere, lame appuntite, altezze da cui, se cadi, non ti salvi.
“Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani. Mano a mano che cadendo passa da un piano all’altro, il tizio per farsi coraggio si ripete: “Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene. Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio”, è La haine di Mathieu Kassovitz, l’incendio delle banlieue, la molotov sul mondo.
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E il fuoco che non è più furto agli dèi, Prometeo dopo la rivoluzione industriale oramai sostituito.
Viviamo su un pianeta al cui centro pulsa un cuore di lava incandescente.
La Terra ha 4,5 miliardi di anni.
Le condizioni del pianeta stanno rapidamente mutando, questi sono gli anni del declino, dell’incendio che segue allo scoppio. Basta guardare i dati che gli scienziati continuano a illustrarci con Visual Data sempre più accattivanti, sperando con quelli di risvegliare almeno la nostra attenzione.
Le performance della nostra civiltà, rispetto l’ambiente nel quale viviamo, fanno schifo. Se fossimo i gestori della Terra e Dio esistesse, ci dovrebbe cacciare via a calci per incapacità gestionale: non c’è un grafico, uno, che mostri una curva crescente nei livelli di vita che contano. Nel medio termine, senza nemmeno scomodare il lungo.
Osservando i dati, la nostra è una società che invece di riconoscere il fallimento della cura, guarda il dottore e osserva, mentre quello gli racconta che le analisi sono chiare, la fine evidente: quel che ci si para innanzi è un muro, e non si può più evitare lo schianto. Al più il dottore, togliendosi gli occhiali, stanco, potrebbe dire: «Mancano tre ore all’impatto».
Questo è, sarebbe tutto.
Passi dalla mia segretaria per l’onorario.
Credevamo che gli alieni ci avrebbero invaso, oppure che ci saremmo estinti a causa del nuovo asteroide figlio di quello che, millenni fa, provocò la grande glaciazione e l’estinzione dei dinosauri.
Invece non ci sarà Giurassico né Permiano, nessun pianeta Theia che si scontrerà con l’orbita ellittica del nostro proto-pianeta. Nessun Cambriano pieno di giganti del mare.
La dislocazione ci sta salvando dal voler riconoscere che quello che abbiamo davanti è un muro. E noi ci stiamo andando a sbattere. Potremmo dire di non essercene accorti perché stavamo guardando l’ultima puntata della terza serie di Daredevil. Matt Murdoch, il diavolo di Hell’s Kitchen racchiuso in una frase. Amare è proteggere.
Ma noi, invece, mentre le imprese scaricavano metalli pesanti sotto il terreno dove ora corrono i nostri bambini, cosa abbiamo fatto per tutto questo tempo? Li abbiamo lasciati fare, precisamente, per cosa?
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