IL NOME DELLE COSE – 2. L’ansia della verità subitanea

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Se non so una cosa guardo subito su Internet. Non aspetto. Tanto la Rete sa tutto.
Dopo Freud, agita la morte del padre ed estinto il ruolo censorio, “contenitivo” della madre, la società del ventunesimo secolo ha deputato all’algoritmo la qualità più alta: fornire il dna generativo di tutte le idee.
Siamo soli. Malati di ansia da risposta immediata. E non è più, o non solo, quanto ci metto a rispondere a una mail, whatsapp, un messaggio. Quanto impiego a usare il pollice opponibile, facoltà che ci ha distinto nei millenni dagli altri primati facendoci raggiungere l’apice della piramide di potere, oltre che quella alimentare.
Nulla è più meditato, piuttosto mediato da un filtro – come lo ha definito Eli Parisier, Filter Bubble – che a sua volta sconta tempi che non sono quelli di lettura, la possibilità di perdersi nel “bosco narrativo”, ma tempi imposti dagli standard di una società che si rende conto di affogare e dunque accelera.
In fondo, la inascoltata tesi di Nicholas Georgescu-Roegen sull’economia e i suoi miti.
È come se stessimo cercando di abbassare il tempo di agonia e per questo ci occorre aumentare la performance, il credo stilistico di una frase a effetto che, quando giunga a destinazione, imprima nell’altro una reazione positiva, un like, un fake: “Preferisco essere odiato per ciò che sono, piuttosto che essere amato per ciò che non sono”, Kurt Cobain aveva capito quanto gli anni Novanta sarebbero finiti presto, e la fine della Storia ipotizzata da Francis Fukuyama non solo non sarebbe mai arrivata ma, anzi, piuttosto, a fare la fine dell’ameba l’avrebbe fatta, molto presto, tutta quella fetta di pianeta per il quale “Un altro mondo era possibile”.
È andata male.
Cobain trovato morto con un colpo di fucile sparato alla testa, il 5 aprile del 1994 a Seattle. Fine del grunge, fine della storia possibile, fine della generazione X cresciuta sovradimensionata solo per fare da cuscinetto alle successive: milioni di individui educati, gonfiati a ormoni intellettuali che, a un certo punto, non solo hanno dovuto ridimensionare le proprie aspettative, il proprio ego ma, di più, se stessi. Fino a scomparire.
Suicidio, prestigio, David Foster Wallace, forzare i limiti delle narrazioni, sempre di più, ottenere niente, allora impegnarsi ancora, e ancora, fino alla fine delle risorse, l’esaurimento nervoso curato a benzodiazepine dalla società. Salvo poi farsi redarguire dai benpensanti. Sul lettino dell’analista ad ammettere che non siamo stati mai abbastanza.
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Tutto questo la società comunemente intesa, il corpus sociale, lo ha capito molto bene.
Dai minatori di Émile Zola, il mondo è cambiato. Il Novecento di Stephen Zweig si è estinto, così i ruoli a esso riferiti. Scoppiati i referenti, la Prima e la Seconda guerra mondiale, il frastuono dodecafonico del presente è divenuto insopportabilmente veloce.
I quattro quarti del Tempo della contemporaneità hanno ridotto la narrazione del quotidiano in modo tale da stare dentro uno spazio sempre più contenuto.
Così i quattro sono diventati cinque, sei quarti. Un tempo tenace e inesistente, che compromette la resa e la performance. Cluster compressi per stare dentro un mega, chip come supporti. Risultato, adesso non è più lo spazio – la fine del sogno di avere una casa, la fine dei viaggi sulla Luna, la fine del pianeta Terra – è il Tempo che non ci basta mai.
Nel frattempo le lobby per l’accaparramento del silicio sono divenute le nuove megalopoli del domani. Oggi c’è un solo unico luogo globale: la Silicon Valley.
Sulle sue strade lastricate di bit nascono, sorgono, si corrompono milioni di informazioni al secondo – Big Data ibridati da immagini – alle quali noi comuni mortali orfani di Thor-Odino, Buddha, Yahveh, Zeus, Dio, deleghiamo non solo il nostro tempo ma di più il nostro impegno alias intelletto. E Karl Marx (non avrei mai pensato di argomentarlo in questo modo) aveva torto: il punto del non fallimento del capitalismo non è tanto il valore di scambio fra tempo e lavoro, il vero snodo narrativo che il grande economista non poteva sapere era che l’uso ineguale a cui si sarebbe arrivati nel futuro prossimo era quello tra il tempo di vita e il tempo di permanenza online, sempre più stretto fino ad arrivare all’equivoco tra il reale e il virtuale.
Marx aveva torto perché scontava, ancora, ingenuamente, una visione umana, un punto zero per dirla à la Zadie Smith.
Solo che il mondo nel frattempo ha smesso di essere umano ed è approdato a ricalcolarsi a uno stadio superiore, radicalizzarsi in una versione estesa. Le nuove frontiere digitali. Il Far West fatto coi cloni, Warlock e la testa-a-uovo di Yul Brynner con la sua camminata sinuosa che incede vincente fino a noi.
Streaming dei giorni sugli schermi, il flusso ad alta definizione di una smart society.
Viviamo vite sui siti – lavoro, svago, acquisto – appoggiati a provider, senza nemmeno sapere il nomen, la verità che sta dietro la tecnologia che ci governa, proprio perché non la sappiamo (ancora) chiamare.
Luoghi inesistenti e paradossalmente concreti nelle nostre vite di tutti i giorni: Google, Facebook, Twitter, Amazon, i giganti della sharing economy, i predoni del deserto delle nostre anime-user.
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Siamo semplici giocatori di una partita che si sta giocando senza che si abbia, tra poco, necessità della nostra capacità d’acquisto, i nostri stipendi sempre più bassi, lavoratori decontrattualizzati, monadi lasciate a languire sotto la spada di Damocle di un Ur-potere burocratico incarnato da un anonimo capoufficio con un unico credo: annuire sempre, per insipienza, risultato del termine mediocrazia.
Franz Kafka aveva ragione, siamo scarafaggi che non sopravvivranno all’esplosione. E non c’è più bisogno nemmeno dell’atomica, la nuova frontiera del suicidio collettivo essendo piuttosto l’atomismo, la riduzione alla ferocia singola e non condivisa, l’odio che diviene hating – haters di tutto il mondo unitevi! – il facile pensiero brutale (barbaro) sta facendo il gioco che avrebbe dovuto fare la Terza guerra mondiale: liquidarci tutti, gli uni contro gli altri, a suon di grevità, nessuno studia più, tutto si può dire, purché sia virale.
Non c’è più problema, proprio perché i giocatori ormai si uccidono da soli come negli Hunger Games: nessuna cooperazione, da dentro e senza nemmeno rispettare le regole, l’escamotage narrativo della science fiction: cosa succederebbe se portassi all’esasperazione, al parossismo, l’odio tra gli umani? La non accettazione dell’uguaglianza sostanziale. Il gioco a somma zero di un’intera specie.
Non era Disneyland il problema, e forse nemmeno la prima globalizzazione. O forse eravamo già morti ma non ce n’eravamo accorti. Manu Chao, Puerto Alegre, No logo di Naomi Klein. Poi. Donald Trump, i sovranismi, la rinascita delle leghe mondiali che professano la chiusura. I muri. Dopo il crollo del muro di Berlino, The Wall e i Pink Floyd.
Nord contro Sud, bianchi contro neri, aveva ragione Philip Roth viviamo trincerati dietro la nostra macchia umana: truth (verità non edulcorata) e trust (fiction) il nuovo storytelling del potere contro popolazioni in fuga dalla guerra o dal clima.
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Dov’è finita la tua solidarietà, Europa? Il titolo della prima pagina di Avvenire a proposito di quanto sta accadendo al confine tra Polonia e Bielorussia dove profughi afghani, siriani, curdi, vengono ricacciati indietro dagli idranti a due passi dall’inverno.
Il cinismo dilaga, tutto si può dire con la giusta verve e il corretto numero di battute.
Io sto con, Je suis: dove sono andati a finire? Che fine ha fatto il senso di umanità di fronte alle foto di bambini morti sulle coste turche: dopo un anno, due, cosa è rimasto dell’indignazione e i “mai più” di fronte alla straziante immagine di Alan Kurdi sulle spiagge di Bodrum?
Imperdonabili menzogne e fiammate di mea culpa a durata. L’Italia, la Germania, persino la civilissima Svezia.
Tutti caduti sotto i colpi del nazionalismo che sbarra i confini, circoscrive il limitare e la fine della pietas. Allora persino a chi professa l’ateismo, l’anazionalismo, occorre ammettere che non c’è più volontà a perdonare, ma solo a pretendere risposta, interrogare i social e vedere in quanti rispondono all’ultimo selfie, sempre felici.
Una società che sta affondando con il sorriso distorto stampato sul volto, Black Hole Sun e i Soundgarden.
Pollice in su, pollice in giù. Quanti amici hai in bacheca?
Non è un buon tempo per vivere nell’Impero, anche nella sua versione post Guerre Stellari, le parole di Padmé Amidala: “È così che muore la libertà, sotto scroscianti applausi” riecheggiano La Repubblica di Platone: “Così muore la democrazia, prima che nel sangue nel ridicolo”.
Del resto, persino lo smisurato Impero di Gengis Khan si è estinto.
Hieronymus Bosch nel suo Trittico del giardino delle delizie illustrò il Millennio.
E noi siamo giunti al Terzo anno Mille della storia dell’umanità. Un po’ come dire l’ultimo pannello del quadro. Quello senza genere umano.
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