La transizione ecologica che verrà: un libro, molti pensieri

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Per capire cosa si intenda con il concetto di “transizione ecologica”, il libro a cura di Massimo Acanfora-Gianluca Ruggieri, Che cos’è la transizione ecologica. Clima, ambiente, disuguaglianze sociali. Per un cambiamento autentico e radicale (Altreconomia, 15 €) inizia citando uno dei racconti antimilitaristi ed ecologisti più belli di sempre, The Incredible Tide di Alexander Key, da cui il regista di anime giapponese Hayao Miyazaki trasse uno dei capolavori dell’animazione mondiale, Conan il ragazzo del futuro (visibile ora anche su Amazon Prime Video).
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Molti i contributi nel testo per chiarire il senso del termine “transizione ecologica”. Molti i nomi, per altrettanti punti di vista, volti a sviluppare a 360° un concetto che approdi a una sorta di re-design di pensiero.
La trasformazione di cui parla il libro è una nuova semiotica, post-pandemica, dei vettori del nostro presente: dalla questione climatica alle soluzioni per l’energia e i trasporti, il “nuovo vivere” – città e campagna, boschi e provincia – democrazie e guerre, migranti politici e rifugiati climatici, povertà e accesso alle risorse, sino alle “de-carbonizzazione dell’immaginario”. Senza più attendere però, che ciascuno faccia il suo, in modo pragmatico e sapientemente intransigente.
Come scrive Caterina Sarfatti, direttrice del programma Inclusive climate action dell’organizzazione internazionale C40 Cities climate leadership group, tra i contributor del libro: «Il tempo è ora. Disuguaglianza, pandemia e crisi climatica sono facce della stessa medaglia: un’economia “sporca” basata sull’estrazione insostenibile di carbon fossile, distruzione della biodiversità e degli ecosistemi in cui viviamo ed enormi fratture e disparità sociali. Abbiamo davanti la responsabilità di ripensare le nostre economie e le nostre società. La transizione ecologica non è quindi politicamente neutra. Non è una questione “solamente” tecnica, scientifica e tecnologica. Come la fai, quali sono le priorità, con quali attori, dove indirizzi gli investimenti sono scelte politiche che possono acuire le disuguaglianze o sanarle. Stiamo andando verso una direzione in cui il punto non sarà più “se”, ma “come”. Per questo, serve, innanzitutto, una visione Politica – con la P maiuscola – che metta al centro le persone nella transizione».
Tra gli altri, il punto di forza di questo libro è la sensazione che resta al lettore di trovarsi di fronte un collettivo di pensieri correlati, complessi, laterali. Pure, tutti affini, riuniti sotto un unico fil rouge, anzi in questo caso green.
Passiamo all’analisi dei vari contributi. Si va dal progetto del collettivo Rinascimento Green basato su: riduzione dei consumi, cambio di sistema dei consumi, efficientamento energetico e mobilità (con investimenti green nei prossimi 5 anni), fino a nuovi insegnamenti e modelli di scolarizzazione sostenibile; dalla specifica di Stefano Caserini, Docente di Mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano, che a proposito della transizione ecologica, scrive: “riguarda non soltanto l’ambiente, la natura, il paesaggio, la biodiversità, i diritti degli animali, l’inquinamento di acqua, aria e suolo ma soprattutto la questione climatica, ossia l’uscita dal sistema dei combustibili fossili” alla visione di sintesi di Ruggeri: “Tutto è in discussione: dove abitiamo, che cosa e come lo produciamo, quanto e come ci spostiamo, che cosa e quanto mangiamo, persino il nostro linguaggio e il modo in cui prendiamo decisioni collettivamente. La sfida è su almeno quattro piani: quello strettamente tecnologico, quello politico, quello dell’economia (reale e finanziaria), oltre che, ovviamente, quello delle scelte e dei comportamenti personali”; passando attraverso i molti contributi, ciò che si legge fra le righe è la necessità di una nuova visione de-specializzata, che accolga il cambiamento producendo pensieri multipli, visioni collettive.
L’obiettivo della neutralità climatica entro il 2050 non è una chimera, ci dicono gli scienziati, le visionarie, della Transizione Ecologica: “La produzione e il consumo di energia sono la quota più importante (circa 75%) delle emissioni di gas climalteranti. Quindi una transizione climatica è anche una transizione energetica”. Starà a noi. Ma è possibile. Se sceglieremo come muoverci, cosa comprare, cosa mangiare.
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Occorre ri-pensare il nostro presente post-pandemico. Ma non è un abbaglio, piuttosto un’opportunità. I tempi sono “giusti”, come ricorda Elisa Giannelli siamo di fronte alla Third Generation Environmentalism (E3G), in tutto il mondo si moltiplicano gli appelli, le voci, i partiti Verdi conquistano land e seggi nei Parlamenti (in Italia, meno).
I trasporti e la riduzione dei gas climalteranti, le risorse rinnovabili, lo switch verso un’economia out-of-fossil, l’era fossile finalmente alle spalle. Questo l’indirizzo strategico proposto dal libro, una serie di azioni atte a compiere un salto tecnologico che permetta a chi non ha ancora accesso alla rete possa farlo (l’Africa subsahariana su tutti, ma cfr. la povertà energetica in Italia che “potrebbe coinvolgere tra l’8% e il 12% delle famiglie, ossia tra 2 e 3 milioni di nuclei, che corrispondono a circa 6-9 milioni di individui”); in alcuni casi i progetti più interessanti vengono dalle reti locali, o dalle cosiddette “aree interne”; ancora, ridurre / fermare il “consumo di suolo” attraverso una serie di azioni di monitoraggio e ricerca.
Anche la transizione agricola, quel che mangiamo, di più in generale un sistema economico apparentemente liberoconcorrenziale, che si risolve in oligopoli (come in molti altri comparti), determina ciò che mangiamo, consumiamo: “Nelle sementi le prime 5 aziende a livello mondiale detengono il 70,4% del mercato, nei prodotti chimici le prime 5 ne controllano il 74.7%, nella gestione delle materie prime agricole le prime 4 multinazionali controllano il 75% del mercato, nell’industria di trasformazione le prime 10 il 28% e per finire nella grande distribuzione le prime 10 detengono il 10,5%”, sintetizza Riccardo Bocci, direttore tecnico di Rete Semi Rurali, a proposito dell’interessantissimo concetto di Distribuzione Moderna Alimentare, e chiosa: “E’ alta la sfida che abbiamo davanti: attuare un cambiamento radicale di sistema a livello economico, sociale, tecnico e culturale, così come è stato fatto dopo la Seconda guerra mondiale”.
E pure, dovremmo averlo sotto gli occhi: anche il gigantismo, con la pandemia, persino l’illusione del gigante è crollato. Un essere antico, piccolissimo, ha messo in ginocchio il Titano. Per questo è ora di rimboccarsi le maniche, e passare alla cura. I sindaci delle città, in alcuni casi, lo stanno già facendo: “le città – che coprono solamente il 2% delle terre emerse ma rappresentano più del 70% delle emissioni climalteranti- non possono farcela da sole. In questa direzione dovrebbe essere pensato l’enorme sforzo globale di ricostruzione dalla pandemia. Nell’ultimo rapporto della Task Force Globale di Sindaci di C40 per la Ricostruzione si dimostra infatti che focalizzare gli investimenti per la ripresa verso politiche urbane “verdi e giuste” potrebbe portare alla creazione di 50 milioni posti di lavoro nelle grandi città del mondo, potrebbe prevenire 270,000 morti premature nei prossimi dieci anni, far risparmiare quasi un miliardo e mezzo di costi sanitari e dimezzare le emissioni climalteranti entro il 2030”.
La dimensione piccola contro la grande. Il micro a posto del macro. Forse è questo, a livello ontologico, che ci sta dicendo questa epoca, la contemporaneità. Vi sono stati momenti importanti, “l’Agenda 2030 dell’Onu e l’Enciclica Laudato Si’ di Papa Francesco”, di coscienza ambientale collettiva, diciamo così. Adesso è ora di agire: gli Stati Uniti di Joe Biden hanno mandato un segnale mettendo sul piatto il “relief bill” – un pacchetto di interventi di stimolo per la ripresa dalla pandemia – di 1.9 trilioni di dollari, a clausola Justice40 (la quale prevede che “il 40% degli investimenti per la transizione ecologica sia a “beneficio diretto” delle popolazioni più marginalizzate, vulnerabili e discriminate”).
Dopo il G20 di Roma e, in questi giorni, la Cop26 di Glasgow gli impegni dei governanti mondiali sembrano moltiplicarsi. Forse sempre di più lo faranno. Che siano triliardi di alberi piantati o bla bla bla ennesimi ciò non deve importare.
I ragazzi di tutto il mondo, la società civile chiede a gran voce attenzione ai temi ambientali. L’aumento delle temperature è sotto gli occhi di tutti. Per dirla con le parole di David Attenborough alla Cop26 (qui il video del discorso), il dato da tenere sotto controllo sono le emissioni di CO2, se aumenteranno troppo – e lo stanno già facendo – assisteremo a un’era di instabilità climatica: siamo di fronte a una scelta epocale, il nostro futuro – quello della razza umana sul pianeta Terra – passa da una residua desperate hope, una “disperata speranza”.
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Affrontare la crisi climatica, la crisi economica e sociale, non solo è prioritario, ma questione di  sopravvivenza.
Al netto delle rivoluzioni scientifiche di cui parlava Thomas S. Kuhn, gli scienziati articolano teorie sull’analisi, gli ultimi dati ci dicono che gli esseri umani sul pianeta “pesano”: abbiamo distrutto e inquinato, più che (solo) molto, troppo.
Nell’ultimo periodo si è parlato di trilemma energetico, come scrive Elena De Luca, Agenzia nazionale per le nuove tecnologie,  l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (ENEA): “ovvero l’esigenza di bilanciare i trade-off delle politiche energetiche che emergono approcciando ciascuna delle tre componenti: la sicurezza energetica, la sostenibilità ambientale e la competitività economica”.
Per questo occorre ricominciare a parlare un linguaggio interspecifico – che preveda anche un’economia fondamentale – che tenga conto dei diritti degli altri regni: animale, vegetale, minerale, a partire sì dalle città, dove si concentra la maggioranza della popolazione mondiale, ma con una logica nuova, diffusa, scrive Davide Agazzi, esperto di sviluppo locale: “l’unica maniera per immaginare di avere un futuro come società è investire in nuove alleanze trasversali, forme di associazionismo economico, forte decentramento di reti di produzione e distribuzione, coinvolgendo quante più persone possibile in processi sociali, economici e politici connessi alla produzione di benessere collettivo”. E allo stesso tempo, come scrive Mauro Van Aken, Professore Associato in Antropologia Culturale – Università Milano-Bicocca, superare: “l’idea della natura, come campo separato e opposto alle società, a disposizione, muto, silente, oggetto passivo; e la correlata mitologia dell’onnipotenza dell’uomo energivoro, il suo pensarsi fuori dalla terra”. Siamo sulla Terra, siamo immersi in un mondo naturale, ospiti di un più ampio organismo collettivo.
Per farlo, usando ancora una sintesi di Sarfatti: “serve un cambiamento complessivo e radicale – una transizione per l’appunto: ecologica, economica, sociale e culturale”, dobbiamo ricalibrare il nostro pensiero, il nostro sapere, e persino il conoscere. Non abbiamo un pianeta di scorta. Del resto, volere la transizione ecologica ed energetica, come diceva Alexander Langer, significa tornare a immaginare, e con rinnovata fiducia socialmente desiderabile, si può riedificare il nostro futuro su questo pianeta.