“Biofilia”, il saggio-cult di E.O.Wilson torna in libreria

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È il nostro legame con la natura, si legge nella copertina di questo saggio-cult di Edward O. Wilson, appena uscito in libreria per piano B editore (16,00 €): “Esplorare la vita e capire che ne facciamo parte costituisce un processo profondo e complesso nel corso dell’evoluzione mentale.”
Classe 1929, biologo, docente ad Harvard, fra i più influenti e apprezzati scienziati del nostro tempo, con questo saggio datato 1984, Wilson restituisce alla vita ciò che esiste oltre la “pulsione di morte” di freudiana memoria con la quale abbiamo sinora invaso, distrutto, cementificato, disboscato la Terra ovvero lo spazio intorno, il nostro habitat e quello delle altre specie viventi: rocce, animali, piante. Abbiamo deciso per tutti come disporre del tutto che abbiamo a disposizione.
La biofilia di Wilson è dunque “tutto ciò che è vivo e vitale”, concetto a sua volta ripreso dallo psicologo Erich Fromm, per descrivere la pulsione a creare, più che distruggere.
Così attraverso una piacevole lettura, lungo 200 pagine, ripercorriamo l’eureka!, l’illuminazione fisolofica dello studioso quando a Bernhardsdorp – un villaggio indigeno di Lokono e Kalina amerindi in Suriname – si trova di fronte a una serie di “punti incandescenti”: là dove un bambino, una donna, la ricchezza con cui abitiamo la vita, ogni giorno, e così la vita tropicale, innescarono in Wilson una sorta di trance del naturalista. Lì in quel momento, Wilson si rese conto dell’incessante, incredibile, lavorio che il mondo naturale porta avanti ben al di là delle nostre piccole esistenze: quanto ci mette un altopiano a formarsi, un giacimento che poi deprederemo, l’oceano a sviluppare la vita marina che lo popola e che noi, in pochi decenni, siamo in grado di depauperare, salvo poi morire di fame?
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Foto di Justus Menke da Pexels

I boschi nei quali si rintana Wilson sono un maelstrom potente, antico come il pianeta. Abitiamo un “superorganismo” complesso e fortemente interrelato, che ci ospita e che stiamo inquinando, rendendo il nostro stesso habitat ancora più ostile per la nostra specie: non abbiamo placche a proteggerci, né artigli, non possediamo doti né veleno da spruzzare per attaccare e soddisfare così il nostro bisogno di cibo. Siamo una razza abile, questo sì, che però costantemente deve districarsi nella foresta del presente fra impulso a distruggere (per accaparrare strumenti, risorse, futuro) e abilità a costruire. Ecco Biofilia di Wilson gioca la sua partita su questa seconda parte, mostrando tutta la sua anticipatoria efficacia nel mostrarci un futuro effimero quanto distante, ai tempi del coronavirus che ha spazzato qualsiasi certezza, mentre nel mondo si parla di quarta ondata, terza dose, e lo spettro del tornare dentro le nostre caverne ci rende sempre più fragili e attoniti.
Wilson recupera il punto di vista degli ecologi che partendo dal presupposto dei regimi caotici disegna il mondo complesso che, adesso ormai dopo due anni complicati, sappiamo esserci intorno nella foresta-mondo che abitiamo: “eliminare anche un solo tipo di albero tra le centinaia esistenti in una foresta (…) e con esso spariranno gli organismi che lo impollinano, quelli che ne mangiano le foglie e ne trivellano il legno, poi vari tra i loro parassiti e principali predatori e magari anche qualche speci di pipistrello o di uccello che vive dei suoi frutti”. Ogni cosa è attaccata all’altra. Lo abbiamo visto, con il pangolino che dal pipistrello ha “attaccato” il coronavirus all’uomo. Siamo connessi, non solo in maniera digitale. Il mondo lo è. La tecnologia, in questo senso, ha solo scoperto l’acqua calda.
Le nuvole, il terreno visibile, le meraviglie che popolano il pianeta, la stessa mente umana – sottolinea Wilson – si è evoluta nei millenni a partire da una mente naturale, creandosi simboli e strumenti ad hoc.
Lo stesso sì, è vero, viviamo un mondo in cui esistono virus, centinaia solo in mare, come schistosomiasi, febbre gialla, filariosi, terzane,…la Macchina che abbiamo costruito per sopravvivere – le città, la civiltà – ci dice Wilson ha bisogno di comprendere che viviamo in un mondo vasto, e ci siamo spinti troppo oltre, nel produrre così come nel consumare.
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Foto di Kseniya Buraya da Pexels

Da un punto di vista generativo, si potrebbe dire che questi scienziati aprono la via a un’epoca di cambiamento che, fatalmente, riesca a uscire dall’antropocentrismo di una logica solo maschile (quando non maschilista): l’edificazione delle città è stata pensata e realizzata sulla scorta delle esigenze del maschio bianco di mezza età del nostro occidente cosiddetto civilizzato, e almeno relativo al Novecento. Le guerre compiute per l’accaparramento e il dominio dell’uomo sull’altro, altri uomini dei quali sterminare la razza, prima ancora che le risorse. Una chiave forse forzata, questa, sin troppo “femminista” che però si legge in controluce in tutte le opere che, ultimamente, si stanno occupando del futuro sul pianeta Terra (e forse non è un caso che le donne siano state nel tempo oggetto di sottomissione, quando non di ricatto e stupro): poiché la forza/forma creatrice della donna, la sua primigenia potenza di vita, è in grado di abortire la stirpe dei re. Onta e disonore per il maschio d’ogni specie, e allo stesso tempo simbolicamente capace di innescare nel maschio la paura atavica di contare meno di quel che si crede di valere.
Tutto questo nell’opera di Wilson non c’è: lo diciamo noi, oggi, abitanti di un pianeta al collasso climatico. Mentre uno degli ultimi studi su Nature apparso nel dicembre scorso, si sa che gli esseri umani generano oramai 30 gigatonnellate di biomassa – cemento, plastica, asfalto, etc. – l’anno: produciamo tanta biomassa quanto l’intero pianeta. Occupiamo troppo spazio per produrre ingombranti, prodotti che diverranno prima o poi rifiuti (o per rottura o per obsolescenza, tecnologica o programmata).
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La scienza non ha niente di mistico, ci ricorda Wilson con le parole dello zoologo tedesco Karl von Frisch, ma quanto di infinito vi sia in una goccia di pioggia così come nel miele delle api.
Viviamo un tempo organismico, Wilson ripercorre l’intuizione di Agassiz-Peirce, “cioè un tempo in cui la maggior parte delle azioni critiche impiegano dei secondi o dei minuti.”, il che implica una relazione elettrica con ciò che ci circonda, la macchina del tempo entro la quale siamo immersi proviene da miliardi di anni, se il Sole non collasserà prima altri 3,5 miliardi di anni passeranno prima che tutto ciò che vive, ed esiste, sul nostro pianeta cessi di esistere, per dar vita a chissà cos’altro dopo l’estinzione della grande stella al centro della nostra galassia. Eppure, lo stesso, non siamo che un battito di ciglia per il tempo cosmico. Un puntino appena nel più ampio palcoscenico delle galassie. C’è poi un tempo biochimico, un tempo biologico, un tempo evolutivo, in mezzo – chiosa Wilson – vi sono poi le innovazioni scientifiche che, agli occhi di noi piccoli spettatori, risuonano a volte come poesia, o il canto del bellissimo uccello del paradiso che lo scienziato vede in uno dei suoi viaggi nella Nuova Guinea, o ancora il fenomeno del serpente: ponte tra la scienza e l’umanesimo, la biologia e la cultura: “La componente onirica e demoniaca, rivelano la complessità del nostro rapporto con la natura”, scrive Wilson: “La vita, di qualsiasi genere essa sia, è infinitamente più interessante di qualsiasi varietà concepibile di materia inanimata.”, come dire che traduciamo agenti naturali in simboli culturali, lo stesso possiamo fare pensando al nostro futuro sul pianeta. Dovremo essere in grado di trasmutare, e tramandare, che ciò che fa male al pianeta ci fa male, dunque va semplicemente eliminato. Ciò che dovremo re-imparare a fare, invece, è co-costruire il futuro integrando le altre specie nel nostro sviluppo. Imparare che la conservazione delle foreste, così della vita complessa presente in ogni dove, ci permetterà di continuare a vivere (ancora) sul pianeta. Per farlo però la nostra specie ha bisogno di immaginare e imparare un nuovo linguaggio, biofiletico, il linguaggio fatto di miliardi di linguaggi, proprio della Vita.