Il bosco del confine – un’intervista a Federica Manzon

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Una bambina cresce, il padre le insegna il bosco. Kranjska Gora, Luka, propusnica. Tutto parla di limitare, in questo libro-faglia i personaggi sono le geografie dei corpi, i confini territoriali vissuti come fratellanza. Le città sono attraversamenti così come le foreste sono luoghi di incontro fra specie diverse più che caccia, compresa quella agli umani.
Il bosco del confine di Federica Manzon (Aboca edizioni, euro 14) è un romanzo singolo e collettivo insieme. Tratteggio di fantasmi ed evocazioni, soldati e guerre, attraversamenti e memorie, impegno, politica, persino Olimpiadi…al tempo delle Olimpiadi.
Nata a Pordenone – zona di confine anche linguistico – classe 1981, responsabile della didattica per Scuola Holden, Manzon è autrice fra gli altri dei romanzi Di fama e di sventura (Mondadori), Premio Carige per la Letteratura Femminile e del Premio Campiello Selezione Giuria dei Letterati, oltre a La nostalgia degli altri (Feltrinelli), ha curato l’antologia I mari di Trieste (Bompiani). L’abbiamo raggiunta per un’intervista proustiana.
Il libro esce per la collana “Il bosco degli scrittori”, l’albero associato all’autrice è l’Abies alba, l’abete bianco.
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Il bosco del confine è scritto con uno stile asciutto, basato sulla sintassi, la ricerca della narrativa contemporanea italiana dove sta andando o dove dovrebbe andare?
«Credo che ogni ricerca di stile sia personale e provi ad accordarsi ai mondi, reali e immaginari, che ci nutrono e a cui sentiamo di appartenere».
Nel libro parli di occidente/oriente, se occidente è dove muore il sole, oriente è l’est. Sei figlia di una “porta”, cosa ha schiuso in te il concetto di confine come autrice?
«Il confine per me è la soglia che espone allo sconosciuto, che proprio come tale al tempo stesso mi fa paura e mi attira, mi minaccia e mi è familiare. E tutto questo per me ha molto a che vedere con la scrittura».
“Me la cavo meglio dei maschi”, dice uno dei personaggi. Tu come stai da femmina nel bosco del presente?
«Credo che, nonostante si sia ottenuto molto grazie a battaglie enormi, resti ancora grande il divario tra i generi in quasi tutti gli ambiti e siano ancora tante le differenze da colmare, nel campo dei diritti prima di tutto. Io ho avuto la fortuna di nascere in un contesto dove a essere importante era la libertà e la diversità, questo mi ha permesso di sentirmi sempre abbastanza bene in un bosco dove i compagni di esplorazione erano indifferentemente maschi e femmine, vecchi e bambini, pazzi e normali. Mi piacerebbe lavorare perché un giorno la mancanza di categorie divisorie e rigide, e la conseguente uguaglianza di diritti e doveri, potesse essere davvero tale per tutti».
Qual è il tuo animale guida?
«Ogni animale fantastico, ogni animale delle storie».
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immagine tratta dall’anime di Hayao Miyazaki, Principessa Mononoke. Sulle storie di fantasmi giapponesi, si legga anche di Yakumo Koizumi (nome orientale di Lafcadio Hearn), Principesse e Mononoke, kappalab edizioni.

Cosa ti piace mangiare sulla tavola di legno di una baita nel bosco?
«Funghi, zuppe, patate arrosto… insomma, si arriva sempre con una gran fame camminando nel bosco».
Per Wittgenstein le parole mettono in forma il mondo. Quali sono le “5 parole” base dell’oggi?
«Credo che il potere delle parole di dare forma al mondo ci inviti a usare, parlando e scrivendo, una grande cura. Bisogna tenere in vita il maggior numero di parole possibile e, perché no, crearne anche di nuove perché nessuna sfumatura del mondo vada perduta e nessuna complessità semplificata».
Umberto Eco scrive di narrazioni come boschi narrativi, a te piace perderti o sapere che bivio prendere?
«Mi piace l’ambivalenza del bosco. Selva oscura, luogo di sentieri interrotti e al contempo rifugio che rasserena e offre protezione a chi fugge».
Il tuo libro sembra essere (anche) un libro sugli “altri”. In Occidente, questo concetto lo hanno definito Conrad e Todorov, fra i pochi. Chi sono gli altri, per te?
«L’altro per me è l’umanità intera».
Camminare, nel tuo libro è un atto necessario: qui vengano in mente Jünger, Thoreau, Kagge, Bernhard, Muir. E per Manzon?
«Camminare è un gesto che tiene insieme respiro, riflessione, scorribande tra le nuvole, scrittura».