Riaffiorano le terre inabissate (Atlantide, euro 24, trad.it. Luca Fusari) di Michael John Harrison ha un titolo che lavora su due livelli: uno semantico (l’affioramento) e uno estetico (l’abisso).
Harrison, scrittore britannico, conosciuto con lo pseudonimo M. John, classe 1945, è esponente della New Wave la fantascienza rivolta agli abissi interiori, o per dirla à la Ballard, l’innerspace: «I maggiori progressi dell’immediato futuro avranno luogo non sulla Luna o su Marte, ma sulla Terra; è lo spazio interiore, non quello esterno, che dobbiamo esplorare. L’unico pianeta veramente alieno è la Terra».
Riaffiorano le terre inabissate ha vinto il Goldsmiths Prize 2020, ed è stato eletto quale migliore libro inglese dell’anno per il New Statesman.
Il primo affioramento è il tempo.
Shaw alla soglia dei 50 anni guarda ma tutto sfugge. Incontra Victoria, ma attende l’avveramento di una profezia. Una qualsiasi.
Il punto però, con il tempo, anche quello che affiora alla soglia della mezza età, è la dissipazione. Shaw infatti perde. Gli resta sempre un pugno di mosche in mano. Tutto sfugge. Anche Victoria. Perché?
Non c’è mai una risposta ma traslochi – Hackney, Hammersmith Bridge, East Sheen, Little Chelsea – eppure c’è un attacco al modus vivendi, il nostro tardo capitalismo, tardo impero, in questo tempo assottigliato che vorremmo definire post-pandemico e invece: “Pensò che forse era normale che nella vita capitassero periodi di arretramento; forse non si poteva essere sempre e comunque pronti e reattivi”.
C’è dunque un anti-accelerazionismo sin già dalle prime pagine di Riaffiorano le terre e l’inabissamento del protagonista, ma non mai sono flutti violenti quelli di Harrison piuttosto una caduta nel gorgo, progressiva e costante.
La fine del mondo non avverrà per collasso improvviso, sembra dirci l’autore inglese che scrive per Daily Telegraph, Times e Guardian (da anni, uno dei giornali più impegnati nel social e nel green). Tutto andrà avanti, con o senza di noi.
Il Tamigi scorre sotto i nostri occhi assonnati, fatalità a Fulham, le persone con cui si confronta Shaw sono abiti e paradossi: Shaw è straniero in terra straniera, estraniato estraneo fra i vicoli e il deterioramento dell’area sud-ovest di Londra.
All’inizio non c’è fuori, pare, anche la pioggia e la caliggine sono piuttosto elementi atmosferici dentro, Harrison manda avanti la narrazione per salti brevi e tempo interiore: un microclima a cui non si sfugge, l’inconsistenza di essere se stessi, se solo avessimo il coraggio di guardare in faccia la nostra fallibile umanità. Abbiamo perso, tutti, come Shaw, solo che ci ostiniamo a non ammetterlo.
Harrison in questo romanzo mette alla prova il suo essere scrittore dialogico, così i ricordi, le persone perse e quelle perdute, arrivano per mezzo di scambi, riflessioni, pensieri, dispiaceri: “Mia mamma è deragliata il giorno che mio padre è morto. In tutta onestà, poi non l’ho più vista molto. Io ero qui, lei ancora su nelle Midlands. Mi sentivo padrona della mia vita”.
Ed è la dissipazione dell’immortalità, allora. Il senso di perdita. I giorni che passano senza ragione, passano informi, senza senso, dissipati appunto, solo i pesci talismano resistono: “C’eravamo prima che arrivaste voi (…) Ci saremo dopo che ve ne sarete andati“, la sottile perspicace ironia di tutto ciò che non è umano, l’oltreumano, post-umano, iperumano, qui diviene “innerumano” la semplice dismissione dell’arroganza del principio verticistico con cui, sinora, abbiamo pensato | creduto | che il mondo fosse nostro.
E invece.
Mentre le Clarks sono rimaste le uniche cose “classiche” ai piedi di gente normale (Tim, alto, sulla cinquantina anche lui) in un pub normale (l’Earl of March) di un giorno normale, Shaw che non ha un nome ma evidentemente solo un cognome, solo il surname direbbero gli inglesi, sur la prima città e noi stranieri persino sulla nostra terra, Shaw dunque inizia la sua discesa – anabasi – anche i giorni si estinguono, come la vita, nel suo doppio significato, la vita dell’uomo, degli uomini sulla Terra.
Il ribaltamento natura-uomo in Harrison è servito sul piatto quotidiano dei trucioli di matita, l’epilobio (cos’è?), anche il sesso è interiore più che intimo, le scene quando ci sono, sono descrizioni di scambio di umore più che di umori, di punti di vista più che corpi. Come se, ci dicesse l’autore, il normativismo kafkiano si è ormai dispiegato, viviamo in giorni tri(s)ti oltre che tecnologicamente burocratici, la Macchina trionfa ovunque, soprattutto sui dépliant turistici, se ci fate caso persino in questi giorni di seconda estate pandemica. Un virus si aggira per il mondo.
Il tempo è un torna indietro. Il tempo presente che sconta ciò che ieri. L’abisso se c’è è nel risucchio dei destini, nel tempo simultaneo che ben prima di noi, del nostro apparire nel mondo, ci delinea non solo l’habitat di riferimento (se nasco a Pretoria non è lo stesso che se nasco a Quito o a Campobasso), ma anche gli antenati, lo spazio da dove veniamo, e ogni traiettoria in qualche modo una sovrascrittura del precedente (“Il civico 92 di High Street – un prodotto del delirio economico del tardo diciottesimo secolo”), la grande Guerra, i fagioli che non finiscono così come le piogge scroscianti in questo quadrante di Pianura Padana, non solo “non esiste più la mezza stagione”, il clima è già cambiato.
Comunque, la proprietà è una cosa strana. Idee per uscire dall’Antropocene. Il mondo non è nostro, né siamo all’apice. E anzi di solito l’apice è l’inizio della discesa, dopo l’affioramento l’abisso, come Shaw che dopo strade difficili e la geografia matrioska del presente, suo nostro mio, trova un libro (un libro dentro un libro, la matrioska infinita della replica dei giorni) dallo strano titolo, Bambini acquatici, mentre la storia con Victoria continua, riprende, o torna: “Poi cliccò su Cancella e andò a dormire”. L’unico modo per approcciare il tempo è sempre lo stesso.
“Da un po’ pioveva. L’aria smorzata fuori dalla finestra odorava d’autunno: cassonetti della spazzatura, particolato di motori diesel, qualcosa di non identificabile dal fiume. Anche Shaw si addormentò, e sognò di trovare una stanza in cui era vissuto (…) Tu lasci troppo potere agli altri. Poi non sappiamo cosa farcene”.
Il tempo atmosferico intanto continua a versare lacrime, come Pearl a cui non va mai bene niente, tutto si confonde nel libro di Harrison, il clima e la semiotica dei gesti, il Galles troppo avvicinato allo Shropshire e la pioggia scrosciante, Annie Swann che sembra appena uscita – una madeleine – dalla Recherche di Proust.
E poi ci sono personaggi strambi, la nebbia che percola come un sudario sulla città, un vecchio cimitero buio e deserto, sensitive, bidoni della spazzatura, il mondo di Shaw è filtro dei reietti, cartina di tornasole dei rifiuti urbani, in fin dei conti gli ultimi in un’era che fa della connessione il proprio credo e della democrazia il marchio che sottace la scalata dei vincenti, i 15 minuti di Warhol applicati tramite social network, ma perché?, ci domanda M. John Harrison nel suo Riaffiorano le terre inabissate, saremo forse noi queste terre emerse, questa geografia degli estinti prima dell’estinzione, in ogni caso prima di andare chiudete le finestre. La nostra casa è in fiamme, dicevamo qualche tempo fa, e non è in vendita. Siamo sulla Terra. E questo dovremmo saperlo. Basterebbe guardarsi allo specchio per vedere il mondo. Uomini, animali, dentro, fuori, spazio, piante. Tutto.
Di M. John Harrison, Robert Macfarlane ha detto: “è uno dei più grandi scrittori di oggi”.