E su cosa sia la casa. Se queste quattro mura che ci hanno accolto, distratto, fatto sognare, i mostri, il cuore. Su cosa sia il concetto che ci lega a uno spazio, la fatica, il rumore, l’assorto silenzio della concentrazione. Le quattro mura entro le quali abbiamo atteso passasse la pandemia globale, inimmaginabile, un virus mortale: all’inizio intimoriti, poi soffusi, infine passati al contrattacco della risoluzione. L’abitazione che ci permette di essere ciò che siamo. Amare, distruggere, piangere, rinascere.
Con La casa vivente (add editore, 14 euro) Andrea Staid – docente di antropologia culturale e visuale presso la NABA di Milano, direttore della biblioteca/antropologia Meltemi editore e co-direttore di Field work-travel writing Milieu edizioni – trasferitosi a vivere da qualche anno sui monti della Liguria, ci consegna una riflessione e uno slancio che fa il paio con una delle domande-chiave di questo inizio millennio: cosa è, casa?
Per alcuni persone, per altri memorie, il passato che preme, la viralità da cui ci si protegge eppure quanto abbiamo faticato in era pandemica a restare uniti, tenerci per mano, re-inventandoci una quotidianità infranta.
De-quotidianizzazione e disabitudine. Allo stesso tempo, rilancio, opportunità. Perché, ci dice l’autore, una casa è prima di tutto un piano di scivolo, una sopraelevata sulle esistenze.
L’antropologo è andato in giro per il mondo, poiché la prima regola per chi scopre è sempre la stessa, cammino dunque penso: Sudest asiatico, dalla Thailandia fino al Laos, visitando Myanmar, Vietnam, Cambogia, Cina, India, Nepal, Mongolia.
In ognuno di questi posti Staid sofferma e schiude un uscio, che è soglia e habitat, dunque habitus, abitudine. In ogni luogo del mondo la casa è un coefficiente diverso e pure sempre uguale, l’uomo per gli antropologi è tutto nel senso morfologico, fisiologico, psicologico delle vite troppo spesso ridotte, inscatolate dentro lamine e muri, tessere di un domino che non riusciamo a smorzare. La casa-prigione in cui viviamo in occidente.
“Ho spiegato allora che, dove abito io, quando siamo in casa, andiamo a dormire o usciamo chiudiamo quella porta a chiave.
«E non avete paura?», mi hanno chiesto a quel punto.
Domanda interessante, che ribalta il nostro concetto di sicurezza, così come il modo in cui ci rapportiamo con i luoghi che abitiamo e con le persone che vivono con noi. A un osservatore distante sembra che ci sentiamo sicuri soltanto rinchiusi, forse perché non ci riconosciamo nella comunità in cui viviamo e abbiamo paura di quello che si colloca fuori dal nostro nucleo familiare, che è spesso mononucleare ed eteronormato. In una società in cui invece il soggetto si riconosce nella sua comunità (pur con tutti i problemi relativi al controllo che ciò comporta), l’apertura della porta di casa è qualcosa che fa sentire sicuri. Se si sta male, qualcuno può entrare ad aiutare, se si ha bisogno di qualcosa si può accedere e chiedere. Il nostro concetto di sicurezza, così come quello di casa, sono relativi ed esprimono una precisa organizzazione biopolitica dell’esistente.”
Il punto è la natura umana. Il genio, il nucleo tematico, il fuoco attorno al quale Staid costruisce la sua analisi è quel che tutti avvertiamo in questo momento senza sapere che non siamo soli.
La caverna di Platone, le ombre lì fuori spaventano, spettri di asocialità e perdita ci attraversano, in fondo alla galleria il freddo si è insinuato nelle ossa. Scegliamo meno, vediamo poco il futuro, non riconosciamo più l’altro come alternativo, di fronte, ma piuttosto siamo tornati primigeni, l’altra riva, rivus, il rivale, lo straniero, l’estraneo, siamo straniti noi stessi, rinchiusi e disabituati a una vita che non è più.
Per questo occorre ripartire dalla, casa. Palafitta, villa con giardino, rurale, appartamento in città, squat, case galleggianti. Questo di Staid è un inno alla scoperta: “il nostro modo di abitare è una costruzione simbolica che orienta le scelte, plasma i gesti, influenza i linguaggi, così come accade nelle relazioni con lo spazio che condividiamo non solo con altri esseri umani, ma anche con gli animali e le piante. La casa è un luogo di produzione e di consumo in cui si articolano sia le dimensioni del privato sia del pubblico esprimendo in maniera pregnante le relazioni fra il luogo in cui si vive e le persone che ci vivono”, scrive l’autore. Ed è lapalissiano e stimolante riscoprire.
Su cosa sia il linguaggio che codifichiamo quando siamo ‘dentro’, e come quello stesso linguaggio lo portiamo all’esterno, nella comunicazione che ci porta al mondo, nel lessico che costruiamo per edificare pensieri, relazioni, volti a cui attribuire voci. Il nome con cui gli altri ci chiamano, la persona-casa che siamo.
Tornare a costruire, tetti, l’uso delle mani, matericità e pensiero, contro la caducità dell’istante capitalistico, effimero per definizione: il capitalismo – talis capus, “voglio” proprio quella cosa là, spasmodicamente, ne determino un prezzo – il capitalismo massimizza l’istante, pensa al breve periodo. Forse è questo il criterio che ci suggerisce l’antropologia ai tempi dell’antropocene. Se casa è dove sono, l’essere si auto-determina per durata, il vincolo della media dei giorni di cui parlava pure Robert Musil.
Coniugando il Terzo Paesaggio di Gilles Clément, maestro giardiniere, urbanista delle erbe vagabonde, alle nuove tendenze critiche di autrici affermate come Donna Haraway, Staid restringendo il campo semantico allarga il criterio delle competenze necessarie all’uomo che voglia oltrevivere questo istante temporale, riappropriarsi delle forme-futuro: “All’omogeneità, le città del futuro dovranno sostituire la ricchezza della diversità in tutte le sue forme; le superfici organiche dovranno invadere, colonizzare, riconquistare quelle minerali, creando varchi per la varietà della vita“.
Un equilibrio naturale che va ricalibrato, destrutturato, l’uomo per essere necessario a se stesso, innescare l’adattamento a un presente continuo in trasformazione – comunque – non deve far altro che accettare la sua morfologia, la mistura di codici e realizzazioni che lo mettono emblematicamente sullo stesso campo di terra e sogni di ogni altro essere vivente. Lasciando la questione del potere, intralcio alla natura dell’uomo, l’autore suggerisce un ri-equilibrio in favore, uno spossessamento, una devincolizzazione dei propri attributi in favore della casa. Dove viviamo, ciò che ci accoglie, il progetto stesso di un futuro sconosciuto. Quando cambiamo casa, non stiamo forse spostando in avanti le lancette del tempo immaginandoci tutte le cose che faremo, i posti che visiteremo, il modo in cui cambieremo noi stessi per mezzo, e attraverso, quella rimodulazione dello spazio – un pavimento, i piatti, il colore delle pareti, le posate, i bicchieri, la novità insita nel quotidiano, se solo sapessimo vederla: le izbe russe, i minka giapponesi, così i tolou cinesi e i tolek africani, sinonimi tutti dell’abitare.
Che casa siamo?, ci domanda in tralice il testo: sei una casa-pietra o una casa-acqua, un rifugio di montagna, una villa con piscina, palafitte sull’oceano, tende e campeggi, siamo case mobili, o sabbie su crinale, mattoni o cemento armato?
Usciamo dunque, “fuori”: usciamo anche dal mito del progresso ci suggerisce l’autore, il velo di Iside si è alzato, la narrazione che occorre, o di che materia siano i sogni, l’auto-costruzione del sé.
La determinazione che occorre per formarsi, poiché ogni forma porta in sé parte del contenuto.
E’ dunque un percorso di scoperta, quello della casa, un itinerario dei viventi. Non a caso, òikos in greco significava casa ed ecologia. La via è evidente, basta solo imboccare il sentiero ci dice ne La casa vivente Andrea Staid.