elogio del margine

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Quando si inizia a leggere la raccolta di saggi Elogio del margine. Razza, sesso e mercato culturale, a cura di Maria Nadotti, della scrittrice-attivista-femminista statunitense bell hooks, pseudonimo di Gloria Jean Watkins (68 anni) e dell’altra sua opera Scrivere al buio. Maria Nadotti intervista bell hooks, a tutta prima sembra d’esser di fronte a un oracolo.
Era il 1998, infatti, quando in Italia uscirono i due testi, ora riuniti in unico volume per l’esordio di Tamu, casa editrice dell’omonima libreria indipendente napoletana (qui il sito) che “si propone di comprendere la società globale in una cornice femminista, antirazzista e anticoloniale”.
Vengono qui proposti in un agile volumetto di oltre 250 pagine, alcuni dei saggi più emblematici della studiosa americana, mai più necessari come in questi giorni post-trumpiani d’inizi terzo millennio.
hooks emerge l’heart of darkness della contemporaneità, la data storica del 1851 alla Women’s Rights Convention di Akron, Ohio, quando Isabella Baumfree pronunciò lo storico speech And a’n’t I a woman. Diritti delle donne: salario, lavoro, voto. Oggi diremmo anche equo compenso, riuscire ad avere lo stesso peso degli uomini nella società, gender gap come si chiama, fino allo stalking, il femminicidio.

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Il punto, scrive bell hooks, non è mai il mondo – che non possiamo comprendere nella sua intierezza – è lo sguardo con cui guardiamo il mondo: chi guarda chi?, insomma, in un continuo rimando mooriano (“who watches the watchmen”). Chi avrebbe potuto immaginare che nei nuovi anni’20 post-Novecento, si sarebbero affacciati nuovamente razzismo e pregiudizi, nazionalismi e sovranismi, sino all’apparentemente incredibile idea dei negazionismi: negare il reale, rifiutarlo perché non si vuole analizzarlo, non riuscendo ad attualizzarlo dunque rimane da fare la cosa più ingenua, puerile: il bambino non è in grado di comprendere le “regole d’ingaggio” del gioco, dunque basta cambiare le regole o rigettarle (come ha provato a fare certo elettorato americano occupando Capitol Hill del 7 gennaio u.s. (4 morti, 52 feriti, 100 agenti della guardia nazionale positivi al Covid-19).
Dare il giusto nome alle cose, dunque, chiamarle per evocarle: partendo da questo assunto bell agli inizi del suo percorso ontologico, decide di ri-nominare la sua individualità, auto-fondare il proprio manifesto: la scelta di un sé femminista (assumerà infatti i nomi materni), determinando il proprio corpo nel mondo, sceglie d’essere un individuo libero in una società americana ancora in divenire: allora Gloria era poco più di una ragazzina, in quegli anni scoppierà il Vietnam, questo è il periodo delle Black Panther, del Black Panther Party.
Fino a che bell/Gloria – afroamericana dei sobborghi poveri del Sud rurale – crescendo anche nella sua volontà di studiare, si rende conto che anche a Stanford, all’università, esiste una disparità accademica, una “questione femminile” e una questione razziale.
Gli women studies che hooks pubblica negli anni successivi parlano dei suoi anni, in verità scava alle radici del colonialismo, delle rivolte in Africa, analizza la situazione degli schiavi, dell’eredità della visione “bianco/dominatore” nella società, che giustifica l’assurda visione di un mondo fatto di individui svalorizzati e disprezzati in mera considerazione del colore della pelle, i “neri/dominati” appunto tanto cari ai sostenitori dell’ormai ex 45° presidente degli Usa, farneticanti suprematisti bianchi, inneggianti al KKK quando non all’arianesimo o alle più turpi nazi-violence.
Leggere hooks significa rendersi conto del perché, e come, i bianchi hanno trovato nel tempo un modo efficace per sottomettere i neri a livello sociale, rivede il vettore “casa” in chiave di resistenza domestica, emerge i concetti di liberazione (nera) femminile e solidarietà come chiave di risposta alla subordinazione che le élite vorrebbero imporre alle classi cosiddette inferiori: books analizza in maniera feroce i rapporti di dominio, la vera e propria dominazione razzista che vorrebbe ancora continuare a dettare legge persino oggi, nel 2021, anno 2 della pandemia, quando tutto è saltato, eppure le narrazioni fake continuano a imperversare (dall’utopia socialista del “tutto per tutti” siamo approdati all’epoca del “vale tutto”, purché online).
Eppure, a ben guardare, esiste ancora nell’immaginario collettivo il cliché dell’uomo nero, del negro – nigger – stupratore, hooks allora rilegge tutto, persino la nascita delle bande (e qui ci si permetta un tuffo al passato con il cult-film I guerrieri della notte-The Warriors film del 1979 diretto da Walter Hill, tratto dall’omonimo romanzo di Sol Yurick ndr).
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La nerezza di cui parla hooks, l’estetica di rimando è costitutiva, la cultura di riferimento è l’arte afroamericana, il Black Arts Movement, il potere nero.
Per certi versi l’eterno confine tra arte e politica di cui si parla ogni qualvolta si cita l’opera di un autore, se effettivamente l’arte abbia o debba avere una raison d’être oppure se ogni arte debba o sia già politica di per sé.
Cultural studies, black studies
, il dialogo che hooks promuove il dialogo critico e il superamento dei paradigmi, persino quelli completamente black, poiché scrive l’autrice americana “noi cambiamo continuamente di posizione e collocazione”, l’Elogio dell’ombra di Tanizaki le offrirà infine lo spunto per dirigere lo sguardo: l’ombra, il nero, l’Altro per antonomasia.
Esiste ancora oggi una questione nera nell’estetica e nella rappresentatività, a Hollywood come in ogni ambito.
Esiste una questione razziale, una dominazione maschio bianco vs “spettatrice donna nera” come la definisce hooks: il mondo diviso, e le ultime elezioni presidenziali americane specchio dell’oracolo con l’afro-indo-americana Kamala Harris, vice-presidente di Joe Biden, nonché possibile futura prima coloured president del sogno made in Usa.
Quali margini vi sono allora, si/e ci interroga l’autrice per una nerezza postmoderna? Si può immaginare un futuro più green, riusciremo a immaginare un domani meno “wasp and white”, ci domandiamo noi caucasici europei contemporanei figli della medio-alta borghesia post-urbana.
La chiusura del volume è il saggio-intervista con cui la scrittrice e traduttrice Maria Nadotti intervistando bell hooks dispiega il concetto di alterità dell’autrice e la necessaria rincorsa al ribaltamento, nel nome dell’altra come compone il titolo del pezzo datato “New York City, dicembre 1997” ed è questo scarto in fondo il pensiero, la chiosa, quel richiamo che leggiamo noi de Il buio oltre la siepe romanzo di Harper Lee, tradotto nell’omonimo cult movie del ’62 quando Atticus Finch, l’indimenticabile personaggio dell’avvocato bianco che difende il nero dall’accusa di stupro, magistralmente interpretato da Gregory Peck dice a sua figlia Jean Louise detta Scout: “You never really understand a person until you consider things from his point of view”. E’ ciò di cui ha bisogno l’America di bell hooks in questo momento, il richiamo all’unità di Biden probabilmente, gettare ponti e prassi: siamo tutti eguali, le donne e gli uomini, bianchi e neri, uomo e natura. Sembravano idee acquisite, evidentemente la teoria ha bisogno della pratica quotidiana.
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