Andare via dalla zona di Siem Reap, nel nord ovest del paese, dal sacro dei templi è un colpo al cuore e allo sguardo. Allo stesso modo lasciare Kaden Sou, la guida (e il suo driver) che mi ha accompagnato fin qui, in discesa verso Phnom Penh l’attuale capitale della Cambogia, un mostro da 3 milioni di abitanti. Il futuro delle grandi metropoli sul pianeta Terra. Per me, l’inferno.
Scrivo in serata e sono stanco ma già so che questi due giorni nella capitale finanziaria e politica di questo paese mi proverà molto più di trekking e cascate, scalini verso Buddha e templi in rovina.
A ogni modo, con ordine.
Stamattina dall’albergo di Battambang in direzione sud, campi e palme poco dopo l’alba, la periferia e i Tuk tuk al risveglio, frotte di ragazzine e ragazzini al primo turno della scuola (fino alle 11:00) arriviamo in un paio d’ore al villaggio di Kampong Chhnang, noto per le sue ceramiche tradizionali.
Una delle famiglie più povere, vive in una capanna il cui tetto è realizzato con foglie di palma (va cambiato ogni 5 anni a causa delle intemperie) una ragazza lavora la terracotta, la creta prende forme mentre le mucche pascolano, il figlio più grande, avrà sì e no 10 anni le frusta per mandarle via dal riso che attende di seccarsi al sole, i fratellini giocano con un aquilone fatto di spago e plastica da sacchi.
Il novello Charlie Brown riesce però nel suo intento, a differenza del peanuts, è un momento lieve che mi fa tornare alla memoria alcune delle immagini tremende del Vietnam (mi riferisco alla fotografia scattata da Nick Ut, un fotoreporter sudvietnamita dell’Associated Press, l’8 giugno 1972 in un villaggio a una cinquantina di chilometri da Saigon, qui l’iconica foto).
Il brutto delle città è che c’è sempre musica e dobbiamo tutt* essere felici: qui no invece, e lo si fa – vivere – con dignità. Gli orizzonti profondi di una terra verde, i massicci bufali d’acqua masticano lungo le dorsali stradali.
Arrivati a Oudong, l’ex capitale reale della Cambogia, saliamo di nuovo sulla collina dove visitiamo le stupa (pinnacoli funerari).
Oudong mantiene così la traccia del tempo che fu, la risalita dei 200 e più scalini agli edifici centrali dove sono esposti centinaia di Buddha, ci trasportano per un istante di nuovo a contatto con le divinità del cielo, i Garuḍa (il dèmone-uccello che, nell’induismo, è il capostipite degli uccelli) e gli occhi dei poveri che qui vivono di offerte e fiori da portare nei monasteri. Nell’edificio più in alto è esposto, si dice, un osso appartenuto proprio a Buddha.
In uscita dalle zone piene di vegetazione si arriva infine a Phnom Penh che, come tutte le capitali del mondo, accoglie con traffico e luci ovunque, la guida mi saluta dicendo di fare attenzione, che non si sa mai.
Persino gli alberghi in città sembrano più impersonali, senza quella magia che solo riflettono le vetrate dai grattacieli. Stelle poco prima del tramonto. A domani.