Cambogia reportage blogdiary 4


Oggi sveglia e tuk tuk. Scelgo quello trainato da una moto, odio gli scooter (non me ne vogliate). Usciti dalla strada scavata dai lavori in corso, entriamo nel quartiere musulmano, donne velate e banchi di frutta, pesce essiccato (la mia guida, Kaden, mi dice che si tratta di pesce serpente, dal manto argenteo, che si trova in queste acque). Anche più tardi nella giornata, incontreremo molte bancarelle al mercato con pesci e anguille, e granchi e pesci di tutti i tipi e fogge, agonizzanti a terra, pronti per essere decapitati, bolliti ancora vivi, o esgusciati come le tartarughe. E no, non sono mai stato vegetariano, sono da sempre di stirpe contadina, come avrebbero detto i miei avi maremmani “Il cinghiale lo mangiamo vivo, pure co’ le setole”. Ma il punto è questo, penso in questo angolo del mondo.

Il genere umano non prende un maiale, un pesce, un granchio. Ne uccide cento, mille, diecimila, centomila. Un milione. Perché? Per mangiarlo? No. Per avere più scelta. Per prendere quello più grande o meno grasso, quello più bello o meno salato. Dobbiamo cambiare anche alimentazione? Forse, ci potremmo pensare, sì. Per quanto mi riguarda, non certo le cavallette fritte che vedo vendere agli angoli della città o la salsa di peperoncino fatta con le formiche rosse (del resto, uno dice, rosso su rosso, fa pure pendant) ma certamente tornare a mangiare solo quel che ci serve, e consumando meno vivente di quanto abbiamo fatto sinora, questo sì, credo che sia una rinuncia che siamo in grado di fare. Ok, basta con il tono professorale e la predica delle 5 del pomeriggio, le 11 in Italia.

Dopo la visita alla pagoda del XVI secolo, ancora conservata in legno, passiamo a trovare alcuni produttori locali, vedo come si fa la carta di riso con cui si preparano gli spring rolls – gli involtini primavera -, una signora scioglie l’amido in acqua, lo stende in forma tonda con una spatola, adagiandolo su un tessuto coperto da un coperchio, il vapore lo cuoce, dopodiché l’anziana prende il velo di carta di riso con una canna di bambù corta e la adagia su un telaio per essiccarlo: ogni giorno solo qui se ne producono 1.000!
Sul Tuk tuk passiamo davanti ad altri venditori di banane secche e riso sciolto dentro il bambù grazie allo zucchero di canna contenuto nel legno.

Scopro poi che anche qui un tempo sorgeva un tempio, Wat Ek Phnom, costruito nell’XI secolo di cui oggi restano poche rovine, ricoperto dalla vegetazione, notevole per i suoi murales raffiguranti Buddha.
Infine, ma lo scopro solo a fine serata, oggi è il “giorno del bambù”.
A pranzo, da segnalare, andiamo al White Rose un locale su due piani molto arieggiato dove si trovano piatti locali e si pranza davanti alla scuola di cinese con gli operai in pausa e le turisti francesi che qui, data la presenza di vari edifici coloniali risalenti al Protettorato d’oltralpe, si sentono giustamente a casa. Un buon lemon shake e il Lok Lak, uno dei piatti tipici khmer: riso bianco, carne di manzo e salsa piccante dolce.
Oggi è il giorno del bambù perché poi, inaspettatamente, in mezzo a una strada sterrata arriviamo a una ferrovia (portata qui dai francesi nel 1930 e utilizzata fino al 2000 come base di trasporto merci nei villaggi vicini): bambini, donne, uomini, piccole comunità accolgono il viaggiatore con un sorriso, sarebbe bene contribuire in qualche modo comprando qualcosa per pochi euro (più o meno, il rapporto è 4.000 riel = 1 dollaro, dunque per es. si può mangiare in 6 spendendo 35 euro circa).

Il treno di bambù non è come ci si potrebbe aspettare un vero e proprio treno, ma un telaio di legno lungo 3 metri, che viene coperto longitudinalmente da doghe in bambù ultraleggero il tutto poggia su due carrelli (del tutto simili a dei bilancieri da palestra), uno di questi è collegato a un motore a benzina attraverso cinghie di ventilazione. Più difficile a descriversi che a salirci. Una piattaforma con dei cuscini trainata da un piccolo motore che aziona le ruote, sulla rotaia si corre veloci fino a un’area sosta dove altri baracchini ci aspettano per un altro contributo (siamo sempre a Battambang dove il commercio è l’anima della città).


L’ultima visita del giorno spetta però alla Mrs. Bun Roeung’s Ancient House (museo e residenza nell’ex villaggio khmer di Vat Kor), si tratta di una casa centenaria che accoglieva la famiglia dell’attuale titolare, famiglia sterminata durante il regime di Pol Pot e dei khmer rossi che, in una manciata di anni, uccisero, torturarono circa 2.5 milioni di persone (la popolazione totale della Cambogia allora era di 7 milioni di persone). Il legno del tetto, quello della piattaforma-ballatoio esterna così il lucido pavimento interno sono perfettamente conservata e si avverte, nel senso di to feel, quello che gli antichi latini chiamavano “genius loci”.
Il rumore della Storia che assorda le nostre orecchie mentre restiamo ciechi di fronte al dolore del mondo. Il rumore dell’acqua di piccole cascate adesso accompagna e ammorbidisce i pensieri. La giornata del bambù è finita prima, posso riposare un po’ e andare prima in città a cercare di nuovi profumi che mi allontanino da tutte le fatiche e le oppressioni, odore buono di cibo caldo, una mano amica che ci sappia tirare fuori e trarre in salvo.