“Erano le sei del pomeriggio quando Guadalupe venne a dirmi hanno ucciso Paloma.”
Streghe di Brenda Lozano (Alter Ego Edizioni, euro 17, trad. it. di Giulia Zavagna) è un romanzo-tempo, anzi tempi, estratto dimensionale coniugato al corpo femmina, collina, il tempo dedicato agli uomini, alle passioni, sin dalle prime pagine la narratrice – Città del Messico 1981, saggista, editor – usa il corto circuito, le sei, le parole, le parole che non hai più quando qualcuno che ami muore, la malvagità, la crudezza della vita.
Lozano rifà il verso alla vita mandando indietro le lancette al punto esatto in cui la vida lo era ancora “vita”, la defunta un’ombra e niente più, ogni persona un linguaggio.
Un romanzo wittgensteiniano, in un certo verso, che prende l’abbrivio da un omicidio e traverso la curanderìa indaga la vita olistica, il rapporto sciamanico dell’esistenza, il nulla delle nostre carte d’identità: possibile ci si possa restringere a un’altezza, un mestiere, una tonalità soltanto degli occhi? Tutto qui?
Il Linguaggio delle streghe di Lozano è il padre della protagonista Zoé, che lei non ha conosciuto, il Linguaggio è il padre lo sconosciuto il terreno friabile delle esistenze: Felicio, Manuel, Francisco, Fidencio.
Linguaggio sono i nomi con cui chiamiamo il mondo che ci sta intorno e che crediamo, solo crediamo, sia mondo. Linguaggio sono i figli Aniceta, Apolonia, Aparicio; la lettera A che inizia e inibisce il mondo. E’ così, guardando la vita, salvando la vita, a bordo di una Valiant del ’78 piuttosto che col gruppo rock dei Fosforescente, che la protagonista del romanzo ci porta sulla strada della strega, l’intuizione, ciò che cambia le carte in tavola, le carte e i destini, e le spariglia.
“Io vedo l’avvenire della gente” è così che si cambia il presente, guardando il futuro, anticipando, indirizzando ciò che sarà, un futuro semplice solo per chi lo “vede”, difficile per tutti gli altri, noi, San Juan de los Lagos, muxe i termini sono le parole che tratteggiano chi siamo, ci dice Lozano in filigrana, mentre attorno e dentro di noi si chiariscono le vicende – milpa, il campo di mais, i soldi e le bestie – la fine il crollo della vita contadina (i giochi e le bambole di pezza, la parola ‘latifondisti’, nonna Paz: “Al villaggio i bambini possono fare quello che vogliono prima di imparare a camminare, ma dopo che si alzano sulle zampe some i vitelli gli tocca lavorare”) quel tempo-ieri , il nostro “abitato”, e poi e adesso?
Adesso che siamo tutti tecnologia avanzata e termini irriconoscibili, gringos, I Simpson e il Messico, l’uno lo stemma dell’altro, il romanzo di Lozano, le streghe non sono tornate né mai andate via, piuttosto è uno spaccato sulla povertà economica, ricchezza emotiva, la fine della periferia dell’Impero, la nascita della donna. Zoé che ha le mestruazioni, le donne, le madri che non sanno tenere un cece in bocca, Streghe punta il dito sul machismo, le convenzioni, la società impastata a terra e baffoni, una civiltà che ha basato i suoi tempi (tutti) sulle necessità dei maschi all’abbrivio del mondo. Chi va a lavoro? Chi porta i pantaloni? E chi i soldi a casa?
Il Linguaggio delle Streghe di Lozano, ogni qualvolta si rimette mano al titolo si aggiunge|si toglie qualcosa, come la curanderia, come negli scritti di certo Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, la letteratura sudamericana che continua imperterrita a ricreare il mondo, reiventarselo, perché diciamocelo pure: chi siamo, chi siamo mai noi occidentali per aver pensato di avere il monopolio sulle storie?
Eppure quando Zoé, Zoé che legge il Libro e il Linguaggio, e suo papà Felisberto le parla, attraverso e con gli occhi della bambina, sgranati sulle verità non disilluse, la fase adulta, e la protagonista la bambina-sciamana, “mio papà Felisberto mi ha detto qualcosa per darmi la prova che non era uno spirito (…) mi ha detto devi dire a tuo nonno Cosme voglio fare quello che faceva mio papà Felisberto, quello che faceva mio nonno e il mio bisnonno che erano curanderos anche io lo voglio fare, lui incrocerà le braccia e ti dirà che è una cosa solo da uomini. Ma se un fiore nasce fiore non c’è modo che diventi cespuglio” ed è qui la rottura e il paesaggio-passaggio di Streghe.
La necessità di rifondare un mondo attraverso parole costituenti. Mentre la mamma di Zoé se ne va di casa, l’insolente Leandra (marimacha, maschiaccio) scompiglia ogni scuola in cui va, i Nirvana di Nevermind fanno legame|legante con case, fatte prevalentemente di legno e adobe (che evidentemente non è solo un software di video-grafica digitale ndr), tutto è chiave e archetipo in questo Bildungsroman nordamericano (come l’altro fondamentale, bellissimo romanzo, quell’imprescindibile Archivio dei bambini perduti dell’altra – nel senso di ulteriore – scrittrice messicana Valeria Luiselli ndr): il Messico è uno stato meridionale dell’America settentrionale, o la parte settentrionale dell’America Latina, muri e pestaggi sui confini, mentre le inondazioni delle ultime ore costringono ennesimi migranti climatici a chiedere asilo, forti piogge come nei film di fantascienza, e la polizia che disperde la folla non ricordandosi che lavora per il popolo e non contro il popolo.
“La strada di Dio è la mia strada”, Zoé diventa strega, si emancipa da suo nonno, dall’autorità, dalla società machista che vuole le femmine stiano a casa a badare alla prole, il pensiero ur-fascista delle madri della patria non intesa come terra dei padri da coltivare in senso lato ma, di meno, di “cosa da uomini” scrive Lozano.
In questa epoca di neo-femminismo potrebbe risultare “paracula” la posizione di Lozano, e di chi eventualmente la legga, ne scriva persino: e l’errore sarebbe ridurre, ridurre la necessità di edificare un nuovo linguaggio, il Linguaggio che non è il superamento del genere, non solo, né il poli- o come si chiama l’ennesima coniugazione di amore, tanto chi ci ha mai capito niente con l’amore? No. Streghe di Lozano ci dice che le parole curano. Sono porte e anche quando Nicanor, il marito di Zoé finisce sotto terra: “Il Linguaggio è sempre vivo.”, come la memoria i gesti, Nicanor ucciso da un machete: si muore anche così ‘fuor’ dall’Occidente.
Ma che fine ha fatto Paloma, in tutto questo? Il nome primigenio da cui scaturisce tutta la narrazione. Un impulso. Non siamo che un impulso da vivi. Così lo siamo da morti. La vita e la morte intrecciate. Inizio che nasce sulla fine. Il punto è che dobbiamo curarci da soli. Dalle malefatte dei giorni. Il trinciato delle esistenze. Dobbiamo, da soli, intraprendere i sentieri che ci portino alla guarigione del sé. Che non è facile né prevede altro se non l’impegno: “Ho pensato se stanotte mi curo da sola posso curare le persone” si dice Zoé, ciò che ci tiene in vita, il barlume, yerbabuena, salvia, ruta, manta de olor. E la sensazione che tutto finirà, anche noi, finirà tutto e dobbiamo solo imparare a crescere spontanei, muxe, Paloma, e così il Libro si costituirà: “Sulle pagine c’erano lettere, parole, capoversi che io non ho letto ma potevo capire” e ancora: “se il Linguaggio non è potere, allora che cos’è?”.
Streghe è un libro sul potere sciamanico dei lemmi con i quali edifichiamo il pensiero del mondo, in fondo del sé plurale che ci porta al mondo. Per questo forse sarebbe più facile andarlo a guardare, immergersi dentro quella bellezza, senza definizioni: uomo|donna, bambino|curandera, vivi|morti – siamo acqua, nahual animali guida, sesso, brodo di pollo, “pace, un tuono, un lampo, un vortice”, voci e vento, e suoni moltiplicati, ombre, erbe, funghi, contemplazione. Un sapere antico. Che viene paurosamente dal profondo. L’essere umano non è che le sue stesse parole e: “Il Linguaggio è nuovo tutti i giorni, Il Linguaggio non si può fissare perché è come la nuvola che cambia con i venti sciocchi, e il vento moltiplica (…) Il Linguaggio è presente e grande come la notte (…) le parole cambiano forma”. Come noi.