20 anni dal “9/11” – intervista a Frédéric Beigbeder

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Sono passati 20 anni dal 9/11, l’11 settembre 2001. L’attacco alle Torri Gemelle di New York.
Lo ricordiamo tutti.
Davanti alle televisioni che mandavano a ripetizione, infinita, immagini di persone che si lanciavano per sfuggire al crollo, aerei che si schiantano contro il World Trade Center. La prima torre. E la seconda. Poi Washington D.C., Osama Bin Laden, l’assalto alle democrazie occidentali. Cosa è cambiato, oggi che gli Stati Uniti riportano a casa l’ultimo soldato dall’Afghanistan?
Lo abbiamo chiesto a Frédéric Beigbeder, critico letterario, pubblicitario, editore extrême contemporain nonché autore del romanzo-plurimo Windows on the World (Bompiani), scritto subito dopo il “primo vero” attacco terroristico dell’attuale fase del mondo, oltre che del libro-cult 99 francs sulla definitiva deriva ego-marketing del mondo.

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Sono ormai passati vent’anni dall’11 settembre, il suo libro parte dalla terrazza del “Windows on the World” l’esclusivo ristorante sulle Torri Gemelle: un mondo che non esiste più. Qual è il mondo di oggi che viene, anche, da lì: l’era dell’Antropocene, delle reti sociali, del “capitalismo della sorveglianza”, direbbe Michel Foucault?
«È strano tornare a questo romanzo ultra-violento vent’anni dopo. L’ho scritto “sul momento”, come si dice. Volevo tornare alle due torri che erano appena crollate. Mi sembrava che fosse stata distrutta un’utopia: quella dell’arrogante e megalomane società consumistica occidentale. I terroristi avevano come obiettivo un simbolo, ma in quegli edifici c’erano delle persone. Non martiri, non santi: solo persone, persone innocenti, che fanno colazione in un grattacielo. Questa era la mia idea: rimettere l’essere umano al centro della catastrofe. Per ridicolizzare sia il sogno capitalista che il delirio terrorista, per mostrare che queste due ideologie sono ugualmente nichiliste. È vero che tutto è cambiato quella mattina. La nostra libertà è diminuita dall’11 settembre 2001. Questa tragedia è la fine di un’era di spensieratezza iniziata nel 1989 con la caduta del muro di Berlino. Nel 2001 siamo entrati in un’epoca in cui la sicurezza è più importante della libertà. I cittadini sono disposti a rinunciare alla loro libertà per sentirsi protetti. Chiedono ai governi di proteggerli da qualsiasi minaccia. Questo vale per il terrorismo come per un virus o per il riscaldamento globale. In questo senso, Osama Bin Laden ha raggiunto il suo obiettivo: minare la democrazia.»
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Una delle immagini più forti del 9/11 è quella di un uomo che cade, dopo essersi lanciato da uno degli ultimi piani del grattacielo: lei ha scritto piccole storie che raccontano la grande storia, è questo il compito della narrativa e dei romanzieri, o cos’è, semmai (o è in ogni caso tutto inutile)?
«La letteratura non ha una missione, se non quella di descrivere il mondo, di fare qualcosa di bello, di dare piacere, non di annoiare il lettore. Ma avete perfettamente ragione: di fronte a una tragedia di questa portata, ho cercato di tornare a una scala umana, seguendo alcuni individui immersi in quei 102 minuti infernali (il tempo trascorso tra l’entrata del primo aereo nella Torre Nord e il crollo della Torre Sud). Volevo seguire il consiglio di Marilyn Manson: “il ruolo dell’artista è quello di immergersi nel cuore dell’inferno”. L’11 settembre è un’immagine orribile, grandiosa, spettacolare, quasi pubblicitaria, ma rimane un’immagine. Ma volevo che fosse più di un’immagine. Volevo che diventassero voci ed esseri: un padre con i suoi due figli, una donna, commercianti, fantasmi, storie. Ho letto tutto ciò che esisteva, ho guardato tutti i documentari. E mi venne in mente che solo la finzione – l’immaginazione combinata con le tecniche di quello che Truman Capote chiamava il “romanzo non-fiction” – poteva permettermi di sentire davvero quello che era successo. Il legittimo silenzio che circonda questo tipo di cataclisma ha imposto un ritorno del romanzo.»
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Nel suo libro, lei mostra diverse visioni della vita allo stesso tempo. Carl G. Jung, in uno dei suoi ultimi libri, parla di “sincronicità” o tempo multiplo, mentre io sono qui, tu sei lì, un aereo passa sopra la testa e presto si schianterà su uno dei simboli dell’Occidente, e tra 20 anni un giornalista italiano ne parlerà con un autore francese… allora, non è il passato ma il futuro che “scrive” il presente?
«Questa idea di sincronicità è molto bella. I 3.000 morti del 2001 non sono morti invano, poiché un autore francese sdraiato sul suo letto nei Paesi Baschi ne discute con un giornalista italiano del 2021 che ha letto il suo libro pubblicato da Bompiani vent’anni fa… Credo che noi romanzieri siamo discepoli di Jung: cerchiamo dei segni. Georges Perec parla di un “manuale di vita”. Non sappiamo come vivere, quindi cerchiamo di trovare le istruzioni, come un ragazzo che non sa fare nulla per costruire un armadio Ikea! Il caso non esiste. Cerchiamo di capire questo mondo caotico. La migliore narrativa è come un puzzle, un rebus, un labirinto dove camminiamo i nostri personaggi. Bisogna accettare di perdersi a volte, e poi, all’improvviso, appare una luce. Per me, la fine di “Windows on the World” è stata una sorpresa. Mi ci è voluto molto tempo per trovarlo. Questo libro è molto scuro, atroce, pessimista. C’è voluto molto tempo per scrivere, soprattutto quando i bambini dovevano morire. Mi sembrava di impazzire uccidendo i miei personaggi, ma il finale, dove le torri vengono ricostruite con le lettere, e il narratore vola in aria come un supereroe, mi fa sempre piangere come un bambino.»
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Qual è il compito della letteratura contemporanea: riappropriarsi del tempo o dello spazio, e di quale (tempo e/o spazio)?
«Grande domanda! A rischio di ripetermi, non credo che la letteratura abbia un “lavoro” da fare, ma il suggerimento è giusto. Apri un libro e improvvisamente il tempo e lo spazio non esistono più, sei da un’altra parte, nella testa di qualcun altro, viaggi nel passato o nel futuro, visiti il pianeta, guardi i paesaggi, il cielo, la pioggia, le belle ragazze sulla spiaggia, ascolti le frasi, vuoi parlare, amare, bere vino, ridi, piangi, ti arrabbi, impari cose, e alla fine rifletti sul significato di un’esistenza che forse non ne ha.»
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