(altered version)
si ringrazia:
Brian Eno – per aver conversato per più di un'ora ed essersi annoiato solo a metà, più o meno… e inoltre per aver dato il "la" a questo reportage (a presto per una video-intervista…)
Davide Bocelli – per la traduzione e per l'amicizia, e le mille altre avventure che saranno, se saranno
Come si arriva dalla musica classica all’elettronica? I linguaggi della musica sono codici continuamente riscritti. Dove ogni artista modifica, elabora l’idea fino alla forma ritenuta valida. Bach creava armonie oblique in cui la nota precedente dava senso alla successiva. Oggi i moderni software, come Pro Tools, permettono di visualizzare le note. La tecnologia, nella sua evoluzione, ha spesso spostato il confine fra capacità umana e strumento, vera e propria misura dello scostamento.Con il reportage Fast4ward si vuole indagare questo limite, attraverso una serie di interviste con musicisti e artisti, per lo più della scena underground. Per vedere fino a dove, oggi, la musica sia in grado di raccontare il suo Tempo. Il primo incontro è con Brian Eno, compositore artista musicista. In poche parole, genio ed estro della scena culturale britannica. Per questo “musicista non musicista” la tecnologia va intesa «come divenire». Se il Rock è la musica dell’individuo singolo, quella di Eno è il suono dello spazio e delle community: la Rete è senza tempo, senza spazio, «dove è possibile lo sharing, mettere in condivisione» tutto: il sapere e gli errori – che per Eno sono le verità che ancora non comprendiamo, possibilità ulteriori di conoscenza, o come lui stesso li definisce una vera e propria «intenzione nascosta».
Per Brian Eno, «la ricerca di un suono va fatta sempre come componente di un tutto unico, di un intero». Così il percorso di Eno è un insieme di collaborazioni: dai Roxy Music di Bryan Ferry al dandy elettronico David Bowie; dai Talking Heads a Dido, da John Cage alle colonne sonore; dagli U2 ai Coldplay, fino al Sistema generativo di musiche per gli ambienti di Spore, il «co-creative game» di Will Wright. Di fronte a un tè, nella hall di un albergo di Roma, gli occhi del "Signor Eno" guardano l’intorno con l’aria divertita di chi la sa lunga. Un po’ sognante, versa il tè bollente. Nell’albergo il mobilio di legno e la ceramica old style delle tazzine danno alla conversazione un’incongrua e divertente nota british. Qualche anno fa lei parlava di black box, quasi una scatola magica a logica compositiva (un “software” ndr), una sorta di “intelligenza artificiale” che produceva una sintesi di scrittura dei grandi compositori della storia come Beethoven, Bach: quali artisti di oggi metterebbe nella black box?«L’dea non era fare delle copie di Bach, mi interessava piuttosto creare una situazione in cui vedere cosa succede se metti insieme, per esempio, le “strategie melodiche” dei pigmei con Debussy… quella macchina ha permesso di realizzare nuovi melange di idee culturali: la combinazione dei linguaggi armonici di Brahms con le melodie africane ha creato una musica bellissima! Ecco, questo sarebbe quello che metterei nella nuova black box, e poi artisti come Steve Reich…».
Cosa ne pensa dell’evoluzione delle tecnologie nella musica?
«L’ultimo sintetizzatore che ho acquistato è cosi complicato che ho capito che non voglio perdere tempo a capirlo. Ho calcolato» – racconta con un compassato sense of humour – che, nello stesso tempo che impiegherei a impararlo a usare, potrei apprendere un nuovo linguaggio, o avere una relazione eccitante, persino mettere su famiglia! Così, ho pensato: Devo trovare un approccio nuovo per risolvere le crescenti potenzialità delle nuove tecnologie. In sintesi, secondo me si tratta solo di risolvere la creatività grazie al design di un sintetizzatore con cui, poi, puoi fare una scelta musicale, in alternativa si potrebbero usare sintetizzatori semplici per creare musica». Intende dire che la semplicità della tecnologia è essenziale ai fini della creatività? «La creazione di enormi tastiere che contemplano ogni possibilità, tranne quella di imparare a usarle, credo sia destinata a fallire: intanto perché in questo “troppo” non si riesce a comprendere il vantaggio delle (infinite) cose che potremmo fare, e poi per una chiara impossibilità all’uso. Il moog invece è diventato popolare proprio perché era semplice, potevi avere una “relazione” immediata, come con un qualsiasi strumento. La soluzione, quindi, potrebbe essere quella di avere un sintetizzatore che ha soltanto un pulsante rosso con su scritto «Origina». Pensa se esistesse la possibilità di avere a disposizione sul lato della macchina 42 bottoni: se premi “1” e, schiacciando, esce un suono che non ti piace allora scegli il pulsante 3 o il 4… provi! Alla fine, ci sono due o tre suoni che ti interessano. Poi dici al sintetizzatore «Evolvi» e guardi questi tre suoni, che sono quelli che ti piacciono e ci crei delle combinazioni, e poi lo fai di nuovo, e crei combinazioni dalle combinazioni… è un processo. Non sai cosa succede nel sintetizzatore, visto che questo oggetto può usare qualsiasi architettura, dalla sottrattiva ai modelli fisici. Tu non devi imparare niente, ma mentre costruisci attraverso questo strumento puoi navigare attraverso un mare di possibilità: ma la navigazione è su ciò che senti e non su ciò che pensi». Come Bruce Chatwin, che capiva l’utilità del viaggiatore, a volte di viaggiare senza meta «Questo ti serve a trovare la direzione, per arrivare nei posti più interessanti ciò che serve sono i sistemi semplici. In questo caso, immaginiamo che in ogni sintetizzatore di base, ci sia la possibilità di impostare un suono e dire alla macchina che lo crea “Questa nota la voglio più lunga” o far evolvere le note con intuizioni…». E chiude, il talento cosciente e pago: «Credo che ci siano moti aspetti del software design che potrebbero essere risolti attraverso questa idea. E poi, insomma, con tutte queste interviste mi aspetto che qualcuno un giorno, finalmente, dica “Questa sì che è una bella idea!». Con David Bowie qualche tempo fa a Montreaux, per l’album Outside, avete applicato il legame suono/immagine, una sorta di riedizione di teoria dei giochi (nella relazione giocatore finito/infinito ndr) e l’avete definita strategia obliqua, cos’è e come si estende all’universale, ai meccanismi della civiltà? E oggi cos’è “multimediale”? «Credo che questa, più che altro, sia una domanda sul “come funziona la tecnologia”». Sorride come chi capisca incondizionatamente, ancor prima di chi si fosse immaginato la domanda, scova sensi reali sotto la superficie degli oggetti, sintetizzatori o pensieri che siano. E chiude, Brian Peter George St. John le Baptiste de la Salle Eno: «Per me tecnologia è una parola che, presa da sola, non funziona… bisogna applicarla: sono i concerti, è il pop; la tecnologia la trovi in un film. Credo che l’uomo sia in grado di innovare a livello tecnologico quando si rende conto che una cosa non funziona bene, quando capisce che il legame è artificiale…». Si alza, prende posto sulla poltrona fingendo di essere il giornalista che fa domande al genio musicale. Si direbbe osservarsi con piglio divertito: «Questo è bello!» dice scorrendo sull’iPhone la fotografia di una giovane donna attraente, con la quale abbiamo sorseggiato tè e camminato per le strade di Roma: la possibilità di “fermare” il tempo nella tecnologia.