blogdiary reportage Ucraina 1


Arrivi a Odessa e la prima cosa è l’aria, diversa, sottile, vivida, l’incontro con la Storia. Ci sono troppe cose da dire e poco tempo per farlo. L’impressione è di essere entrati in un piccolo angolo della Storia quella con la S maiuscola. Odessa poi la vedrò stamattina, ieri sera per le vie però l’impressione – prima del coprifuoco – è stata quella di essere di fronte a un what if “cosa succede” se dò in mano un’intera città, da più o meno un milione e mezzo di persone, completamente in mano ai giovani?
Camminando per le strade del centro, luci accese, appena qualche traccia della guerra (sacchi di cemento a terra impediscono l’accesso alla scalinata Potemkin che affaccia sul porto), l’impressione è quella di vitalità cercata, a tutti i costi, esibita persino, nei tacchi a spillo delle ragazze vestite da sabato sera, sì, persino qui, sì in guerra, sì perché la vita è più forte anche delle guerre, checché ne dicano i potenti di turno.

Ho visto un chitarrista, che suonava una Ibanez elettrificata, improvvisare suoni e ritmi in una delle molte piazzette piene di locali, prima che scattasse il coprifuoco a mezzanotte. Ragazzi che fumano, supermercati aperti, e poi anche alberghi, solo in periferia l’ingresso a Odessa appare appena sfumato, ieri – mi racconta Stefano Antichi di Terre des Hommes – i droni hanno tirato giù una centralina elettrica, una parte della città è senza corrente, i più organizzati però hanno generatori di corrente. La vita va avanti a qualsiasi costo, dicevamo. Odessa una città giovane, in mano alle|agli adolescenti, quindi.
Le cose da raccontare sono troppe quindi e sfasano i punti e le auto-raccomandazioni a scrivere poco, scrivere bene. Ma forse è giusto così. Permane l’impressione di essere in un luogo della Storia. Sono a Odessa da 12 ore appena. Ci ho messo 14 ore per arrivare, via Chisinau, dalla Moldavia. Di lì ho preso uno dei molti bus che fanno spola, tutti i giorni, e arrivano qui, su questa capitale-porto sul Mar Nero, che Putin tanto vorrebbe nell’idea Risiko che anima le guerre di tutto il mondo.
Dalla Moldavia a Odessa sono state 6 ore e mezzo di autobus, 2 controlli di frontiera, 4 check point militari. Fucili a braccio, sono saliti per controllare i passaporti.

Quasi tutte donne a bordo, molte che tornano dai propri cari, altre che sembrano rientrare semplicemente. Ci si abitua a tutto. Anche a un conflitto che dura da più di 2 anni. Uno dei pochi uomini a bordo trasportava con sé foglie di tè, uno zaino pieno di foglie, in mezzo alle armi e la violenza dei controlli che frugano tra le tue cose.
Quel che si dice sull’Ucraina, granaio d’Europa, lo vedi dal finestrino mentre scendi dall’unica via oramai intasata di TIR, colonne di migliaia e migliaia di camion in fila per il trasporto merci, armi, animali, e chissà che altro. Colonne senza fine, per chilometri, macchine di un’altra epoca – UAZ, Matra – ciò che fu russo permane oggi qui come rimasuglio di un’altra epoca, di un altrove non dimenticato, presente eppure già, in qualche modo, parla un’altra lingua, che non è più la cultura degli zar, non può esserlo, e non è ancora il nuovo ucraino dei giovani, i più grandi sono tutti al fronte, da 2 anni e 2 mesi per la precisione.
Entrare in un paese in guerra per vedere l’impatto del gene-conflitto sui territori, comprendere quale lo stato dei campi coltivati, degli animali, le piante.

Sono transitato per un parco nazionale e non me ne sono accorto. Perché la terra è piena di buche qui, trincee scavate, postazioni anti-aeree. Durante la notte appena passata non ci sono state esplosioni, né a mezzanotte né alle 4:30 del mattino, sono questi i due momenti clou, mi racconta Stefano, coordinatore in quest’area dopo Yemen, Iraq, Sud Sudan, Namibia. Stamattina a colazione, dolci alla cannella e frutta, si sta in silenzio sospeso, il sole scalda le strade, un caldo secco, senza peso, è una strana sensazione quella di parlare di geopolitica mondiale alle 8 del mattino, fuori una guerra che ieri per la prima volta in vita mia mi ha fatto alzare lo sguardo al cielo in cerca di un missile in arrivo, per la prima volta, il cielo non come etere e volo di uccelli ma spazio aereo occupabile, il suolo dell’aria, il suono di droni. Niente, finora, tutto tace, che sia la pace prima della tempesta? Voci dicono di un prossimo attacco in massa che si prepara per il 18 aprile.
Eppure io ho visto bambini in bicicletta rientrare alla sera, campetti di calcio ai lati delle strade, appartamenti spenti, gente andata via, una città viva e abitata, forse non al completo ma immersa nelle acque del presente.