Un omaggio alla Maremma (mi è venuto in mente l’hommage alla Catalogna di George Orwell), questo si prova infine, chiusa l’ultima pagina del romanzo Selvaggio Ovest di Daniele Pasquini (NN editore, Euro 18).
“Romanzo” – ci tiene a ribadire nella nota finale l’autore, toscano, classe 1988 – così come lo sono in fondo tutte le storie, i mille rivoli che compongono la Storia più grande del mondo. E così, Pasquini intreccia le meraviglie finte e vere di quel teatro vaudeville che fu il Wild West Show di Buffalo Bill che sbarcò in Italia dopo l’Unità, le vicende del brigante Occhionero, sullo sfondo il tentativo – riuscito – dell’allora Regno italico all’estirpo della piaga del brigantaggio in quella maremma amara cantata e vituperata, terra di mal’aria, rivolte contadine e anche, soprattutto, la formazione di Donato che da ragazzo, insieme al padre, il buttero Penna, diventerà uomo, grazie anche all’incontro con Gilda, la ragazza sopravvissuta.
Con pennellate di sotto serpi, sterpi e pulviscolo Pasquini scrive la selva e i snocciola i nomi, è pane e miele, pere e formaggio, questo selvaggio luogo dove il sole muore, rinasce, risorge, il transito dei giorni tutti uguali – che la terra è bassa, dicano gli agricoltori senza retorica della campagna – e così, mentre le pagine scorrono tra il circo messo in piedi dal colonnello William Cody, BB appunto, Pasquini mette in fila gli indiani oramai ridotti a controfigure del carrozzone americano all’affaccio del Novecento, dopo quella guerra di secessione che il filone western ha saputo magnificare e rendere immortale (a differenza nostra che, se pensiamo all’Italia dello stesso periodo della guerra fratricida fra Nord e Sud negli Usa, ci vengono in mente subito i carabinieri con i baffi e Pinocchio, invece dei film di Sergio Leone).
Le vicende di Occhionero, la belva, bandito spietato, e la sua scalcagnata banda di diavoli, incrocia il destino della bella Gilda, così quello dei Penna, i sentieri nel bosco narrativo di Selvaggio Ovest transitano sui rigagnoli della Maremma e le vacche con le grandi corna, le maremmane, e le chianine, ci sono poi i sollazzi dei politici, uguali in tutte le epoche, e i calcoli malandrini delle forze dell’ordine. Anche se, pare dirci Pasquini in controluce, nel sottobosco degli eventi della sua Maremma-mondo, che non v’è territorio dove non crescano, allo stesso tempo, fango e marruche, fagioli all’uccellina e cretti, forre dove scavano le volpi e gli istrici.
“Nell’attesa dell’ora finale l’uomo si illude: mentre i rivoli della storia esondano nessuno li guida. In tanti vi vedono un disegno, ma al centro della mappa l’uomo vede se stesso, scorge la strada, la fiuta, e quel sogno lo chiama destino. Ciascuno così. Ognuno al centro. Oltre se stessi, la mappa è sfuocata: c’è la gloria degli altri, la terra non conquistata”. L’occhio dell’autore ci conduce tra le fornaci del tempo e i sentieri a cavallo, mentre Donato guarda il sole e suo padre poco a poco, finalmente, abdica alle sue illusioni, il rapporto padre-figlio che siamo, che ci deve condurre a conoscere infine quale la direzione.
E’ un romanzo western e un’assoluzione, Selvaggio Ovest, un colpo di pistola che rimbomba sparato da una femmina, perché non c’è gloria nel tempo degli uomini. Dire la verità. Le trame dei destini si intrecciano, mentre i cavalli vengono rubati e prima o poi la legge non scritta del dio imponderabile mette a posto le cose, almeno sulla carta.
Per oltre 300 pagine la storia di Occhionero, Buffalo Bill (uno dei tanti sterminatori di bisonti, altro che sogno americano), Donato e la fattoria, il silenzio e il vento spingono avanti. Si legge a capofitto per voglia di cavalcare, e questo non è poco mentre i conti non tornano.
(Foto di Pixabay da Pexels)
“Salvati ormai i volti dalla luce più violenta, si scrollarono di dosso il giorno lanciandosi a tutta velocità nella prateria. Sembrava che rincorressero qualcosa, invisibile e lontano. Poi fecero rifiatare i cavalli, scherzarono un poco, raccontando le poche storie che sapevano raccontare, e parlando ancora tornarono indietro…e mentre Gilda portava gli animali ai recinti, Donato attraversò il piazzale, uscì dal cortile della Trappola e osservò il fiore dell’agave. Si alzava dritto tra le foglie morte, stagliato verso il cielo che già faceva spazio alle prime stelle”.
C’è meno epica di quanto ci si potesse attendere e più cuore, però, e allora, nello stile di Pasquini, al suo quarto romanzo, le lettere vere e inventate del colonnello americano fanno da contraltare alle cronache del tempo a firma Sigaretta, giornalista d’antan, fatti reali e immaginari si intrecciano a formare un compound poco retorico, persino dove l’azione – gli inseguimenti, le sparatorie, i cattivi – ci sono ma non sono, in fondo, così importanti.
Il west punto-cardine che si sgretola davanti, altra illusione al via, altro terreno da far franare, è un’articolazione – animali, piante, eremiti folli e non, come il Cristo dell’Amiata David Lazzaretti, anch’egli fatto fuori dai “poteri forti” – i mille rivoli dell’unico fiume che attraversiamo, bisacce e cartucciere a lato, cespugli secchi, polvere. Pare di stare infine al crepitio dei fuochi da campo, a bere l’acqua dalle bisacce, mentre non sai se domani sarai vivo o morto, formula tanto cara al genere, per questo si resta. Il West è morto, viva il West!