La meteorologa


Giorni di primavera anticipata, primavera triste o, come ci ricorda la serie Il problema dei tre corpi, in streaming su Netflix, suoni e temperature d’una primavera silenziosa così come Rachel Carson titolò il suo libro epocale, da molti considerato il primo manifesto ecologista, sui rischi dell’inquinamento provocato dall’attività umana (era il 1962 e allora la battaglia era sul DDT e le sue conseguenze sugli uccelli). Oggi invece, ormai lo sappiamo ben oltre l’effetto farfalla, co-abitiamo la Terra: esseri umani, animali, piante, microrganismi, batteri, funghi, etere, tutti ammassati sul minuscolo puntino blu a spasso nell’Universo. Il pianeta Terra, l’unica casa che abbiamo.
Conflitti e carestie, deforestazione, colpi di stato, colpi di mortaio e pure il meteo – “non esiste più la mezza stagione” – ormai è instabile: la pioggia cade sulle nostre case, chi ancora le ha, la “nostra” casa, lato sensu. Elettrico o motore, sforamento delle PPM nelle città, un ‘monnezzaio’ a cielo aperto, la politica non decide, i negazionisti e la terra è piatta, hanno ragione i rettiliani, ragazzi occupano le scuole, la polizia invece di difendere i cittadini, “chi controlla i controllori”, si domandava Alan Moore nel suo Watchmen. E la verità è solo una. Il presente ci sta grondando addosso, come un diluvio, come una gerarchia.
Da queste premesse climatico-atmosferiche, per meglio dire del meteo interiore della nostra contemporaneità – come stiamo?, che fine ha fatto la speranza in un futuro migliore, “futuro” questa parola svuotata – parte il romanzo di Tamar Weiss Gabbay, La meteorologa. Novella in tre parti (La Giuntina, trad.it. Silvia Pin, 14).
Una donna arriva in città, ha la treccia lunga e sciolta, una camicia a quadri blu, sembra la prima scena di un film, il suo drive, il modo in cui entriamo nel tempo narrativo de La meteorologa ha a che fare con il condizionale delle nostre esistenze, quand’è che prenderemo in mano la nostra vita?, ci domanda subito Gabbay, con uno stile asciutto (a proposito di desertificazione dei sentimenti) e scarno (non c’è miglior rivoluzione nell’Era social dell’ego fiction puntigliosa del non detto, e degli spazi vuoti).
“La sua stazione meteorologica aveva coperto per la prima volta una zona a cui nessun sistema di previsioni del tempo si era mai interessato … Era riuscita a capire quando le acque piovane sarebbero fluite sui pendii dall’altro lato dei monti, lasciano la cittadina e il piccolo canyon all’asciutto, e quando sarebbero scivolate sulle pendenze prospicienti la cittadini – spessi vermi striscianti, erosivi, sinuosi, come dita di una mano potente, che spazzava via tutto quello che trovava sulla sua strada e lo scaraventava in basso, nella fenditura”.

(Foto da Pexels: Aleksandar Pasaric)
Gabbay ci trascina nel fango che non dà scampo, è inutile girarsi dall’altra parte, le piogge dilavano, i terreni smottano, le case vengono trascinate via, a valle. La mano del gigante schiaccia i piccoli esseri umani che sopravvivono sul pianeta da una manciata di migliaia di anni.
Previsioni e dati, da quanto tempo gli scienziati ci dicono – spaventandoci, è per questo che non abbiamo ascoltato quei “menagrami” – che il livello di inquinamento e uso e sfruttamento ed erosione del suolo che abbiamo messo in atto è, semplicemente, troppo?
“La Terra ruotò leggermente intorno al proprio asse, collocando il sole al centro del cielo sopra la donna che camminava”, ma v’è in questo romanzo – agile e diretto – una dote ancora più importante, in termini di narrazioni del presente: il continuo rimando del piccolo al grande, Gabbay descrive il clima e lo distribuisce indistintamente, come deve essere, alle molecole del mondo – naturae primus portarum claustra cupiret – che poi assumano per caso o chissà che criterio, forma d’essere umano donna meteorologa o gocce di rugiada, che le nostre azioni siano intenzionali o, piuttosto, iscritte all’interno di un più vasto piano inconoscibile, mentre l’asse del pianeta si sposta e noi non ci pensiamo mai. Quanto è distante il nostro passato da ciò che siamo diventati? Quanto pesa il tempo, il passare delle ore, sui nostri corpi? Invecchiamo, già, moriamo, già, parliamo da soli mentre camminiamo, mangiamo, rubiamo, i fascismi picchiano per ignoranza, le crepe del mondo, la fenditura tra la vita che vorremmo e la vita così com’è. Il mare, come suggeriva Heidegger, i nostri giorni sono come un viaggio in nave: lasciamo una scia che si dissipa subito, appena avvenuto il nostro passaggio, le onde si increspano appena, è l’impermanente, i giorni aridi dell’estate che la meteorologa ha appena passato con la nipote: “Pioverà nel fine settimana?”, chiede la nipote: “Ci serve saperlo, perché in gita forse scenderemo nel canyon”.

(foto da Pexels: Luca Kloeppel)
Le previsioni del tempo, un appuntamento fisso alla TV per le generazioni prima della nostra, le previsioni di che tempo farà, nubi stratiformi, semantiche, forme che affiorano, mostri o incubi immaginari, filamenti nel cielo che quanto ci condizionano. Immaginate un cielo sempre grigio, cupo, monodimensionale, senza prospettiva, uno strato lieve a rendere opaco, svanito, lattescente, persino il sole: Pechino qualche anno fa, la Pianura padana oggi.
La meteorologa
– premio Brenner 2022 –  si inscrive a pieno titolo nella letteratura cli-fi, climate fiction, mentre noi stiamo pensando se far piovere, nevicare, splendere il sole a comando. Ci siamo fatti forse prendere, appena un po’, la mano? Le nostre soluzioni tecniche e tecnologiche, mentre il mondo è in frantumi e anche noi non ci sentiamo troppo bene. Finora abbiamo prodotto soluzioni che ci hanno permesso di alzare ancora di più l’asticella: inquiniamo troppo? Non c’è problema, basta piantare alberi. Mangiamo troppa carne e uccidiamo troppi animali? Presto fatto, basta garantire che le galline becchino mangimi bio, senza antibiotici, prima di tirargli il collo (ogni anno si macellano per l’industria alimentare più o meno 65 miliardi di polli, per la Royal Society quando gli archeologi del futuro, o gli alieni, indagheranno sulla razza umana della nostra civiltà resteranno soprattutto due cose: residui di plastica e ossa di pollo ndr).
E’ così che la meteorologa, primo racconto dei tre che compongono il romanzo di Gabbay, guarda il mondo, lo osserva cambiare, trichechi sulla banchisa disciolta, inondazioni di fine primavera, testimone privilegiata in mezzo a ciechi Tiresia, gli esseri umani condannati ad auto-profetizzarsi l’estinzione, senza altro da fare che vederla prima sugli smartphone o, viceversa, persino sgranati per quanto dettaglio c’è nei nuovissimi schermi HD: “Lei, dalla parte di chi stava?” fa domandare Gabbay alla sua eroina: “E loro, le forze della natura, possenti, indifferenti, ce l’avevano una parte?”. Forse no, forse è meglio così, forse è meglio non sapere. Fino a che, arrivano i cani. Il branco come caso, aspettiamo la vita come si guarda al cielo, pioverà o non pioverà? I cani che si ribellano ai padroni, la natura a chi crede che tutto ci sia dovuto, mentre la Terra è antica, e il selvatico primordiale è un cupo grigiore in arrivo. Del resto, aprile è “il più crudele dei mesi”, scriveva T.S. Eliot nella sua wasteland, la sua|nostra Terra desolata. E questa è solo la prima delle tre novelle del sottotitolo, poi ci sono Il professore e La ragazza e il pesce. Il continuum del tempo spetta a noi, a come sapremo coniugare il nostro quotidiano al clima di un pianeta che cambia.

(foto da Pexels: Pixabay)