Amazonia, Perù – reportage blogdiary Machu Picchu, Huayna Picchu


Tempio dei condor (dei lama nel senso degli animali non dei mistici tibetani) e degli Incas. Per arrivare a Machu Picchu ci ho messo 11 ore. Ma da un certo punto di vista, salire Huayna Picchu le “scale della morte”, migliaia di scalini costruiti più di 500 anni fa, è un’esperienza che rimette in sesto la visione del mondo. E da lassù vedere, infine, la cittadella terrazzata degli Inca. Ma andiamo con ordine.

Le tappe di avvicinamento alla montagna sacra: da Cusco si deve riuscire ad arrivare alla stazione di Ollantaytambo (N.B. non andate alla stazione di Poroy, come segnalano alcuni siti quel treno ha pochissime corse turistiche tutte alla mattina presto fra le 6 e le 8 e Poroy dista circa 40′ dal centro città), la cosa più semplice è farsi portare da un taxi – 25 soles, più o meno 8 euro – al punto di imbarco per Ollantaytambo e lì prendete un taxi compartido, ovvero in sharing con altre persone: a me è capitata una coppia giovane argentina, una guida che dalla città andava proprio a Machu Picchu e un ragazzino che si è fatto lasciare a metà strada, silenzioso e preso dai suoi video sullo smartphone.

Ollantaytambo sembra una città western, sorta e sviluppata attorno agli affari della stazione, ed è abbastanza incredibile vedere come su un’unica direttrice, insomma una unica lunga via, vi siano così tanti money exchange, tiende (negozietti) che vendono di tutto, bar in uno dei quali ho mangiato una buonissima insalata di frutta. Una via di mezzo tra lo stereotipo dei film e le immagini disneyane di Paperone ai tempi del Klondike e della corsa all’oro.

Le due compagnie che effettuano la corsa sono la IncaRail e la PeruRail. Il treno non è economico, a seconda delle corse si spende in media 75 dollari, e soprattutto è ormai “tarato” sui turisti, quindi con balli e musica di accompagnamento, nelle corse di PeruRail anche bibite a pagamento, maglioni e altri oggetti (come accade per alcune compagnie aeree low cost).

Con il treno si arriva finalmente ad Aguas Calientes, chiamata così per le sue acque termali, che nel tempo è diventata un po’ una nostra Rimini, con molte lucine e musica ad alto volume dai locali con maxi schermi, che un po’ stride con la coscienza di essere sperduti nel nulla della foresta, proprio alla base di Machu Picchu, tempio Incantato.
La mattina sveglia presto – essenziale, io alle 5:15 – per prendere il bus che porta all’ingresso del sito, la corsa dura circa 30′ o a piedi 1h40′ (sì ci sono anche pazzi che vanno su camminando, e poi salgono alla vecchia cittadella, e anche molti altri che sempre a piedi percorrono la distanza ferroviaria tra Aguas Calientes e Ollantaytambo, ma questa è un’altra storia).

Sono salito per le “scale della morte” da solo, e per prima. L’attacco alle 7:18, si firma un registro all’ingresso (dopo di me troverò in discesa una guida peruviana con un ragazzo delle Hawaii, una coppia di spagnoli, un terzetto peruviano, una ragazza che saliva, sola, anche lei, e tutti la stessa domanda: “Quanto manca?”).
E’ lì infatti che parte l’agonia. Scalini di pietra con una pendenza media di 60 gradi. Infiniti. Provanti per il fiato e le gambe, anche per chi è allenato. Eppure, a ogni passo, tutto quel che la montagna toglie, dà. E’ stato allora che, dopo l’ennesima curve con altre ennesime infinite scale, ho capito che non dovevo andare col mio passo, col mio tempo.

Nel silenzio rotto solo dal ronzio degli insetti – nessun condor in effetti, tempo appena velato, perfetto per salire senza morire di caldo – ho compreso che il tempo era quello della montagna, e dovevo abbandonare l’arroganza del mio passo, accettare anche la sosta, accogliendo un tempo-frontiera, più espanso, privo di obiettivo (devo salire e metterci il tempo minimo possibile, così poi faccio altro) la quintessenza dell’occidente: la velocità: è stato solo allora che sono riuscito a salire verso la vetta di Huayna Picchu.

Vento e silenzio, nubi accanto al nostro sguardo e montagne verdi, stondate, dense, e sotto i nostri occhi la vecchia cittadella di Machu Picchu, con le sue pietre grigie, e gialle, i terrazzamenti, i piccoli acquedotti. Per così tanto tempo ci siamo raccontati la favola dell’inferiorità di queste popolazioni, solo per nascondere il genocidio che abbiamo commesso, da invasori, per rubare le loro terre così preziose. Punto.

Dalla cima mi sono disteso a terra con la schiena, è la sensazione di appagamento e fatica, di altezza che fa di noi esseri senzienti, creature d’orizzonte e cerniera tra l’alto e il basso, direbbe Nietzsche, forse.
Sono salito a Huayna Picchu perché non lo sapevo. Ma anche sì. Perché mi gira in testa l’idea di una prossima storia che già avevo strutturato nella mia testa. Ecco, la montagna me l’ha completamente decostruita, fatta a pezzi, spacchettata. E così ora mi rimane il vento e basta. Parole da imbrigliare, che però avranno visto questi luoghi di incanto, preziosi e dignitosi, incredibilmente attraenti e così feroci, a loro modo.

Dopo la discesa di Huayna Picchu ci si perde tra i mille rivoli labirintici dell’antico villaggio, restano ruderi e rovine, capanne e cenni di quello che fu la fonte del Tempio del Sole, anche qui, la divinità che però si faceva quotidiano grazie a una tecnologia evidentemente efficace, in grado di innestare quello che la contemporaneità sogna soltanto almeno finora, ovvero la possibilità di integrare la tecnica e lo stile di vita di una comunità in completo accordo con la Natura.

Natura che qui assume la forma dei lama che, miti, brucano e guardano gli umani del futuro mirare ciò che resta dei popoli del passato, si creano ponti temporali così, un unico circuito di cui ancora non abbiamo compreso del tutto l’essenza.
Il rientro a Cusco è più facile, come sempre il ritorno rispetto all’andata. La Sierra andina scorre davanti ai nostri occhi, che si fanno improvvisamente silenziosi, e sorridono, alla possibilità di perderci nel mondo.