O di quando vai al mattino al Templo del Sol, camminando lungo le pareti rocciose, i due livelli, il giardino con le immagini di grandi uccelli come quelli misteriosi di Nazca. Attraversare le pareti di quello che un tempo fu un palazzo imperiale, leggere le iscrizioni prima che arrivassero gli uomini bianchi a estirpare quei popoli senza dio, per imporgliene uno loro, unico, passandoli a fil di spada.
Oggi del tempio originario rimane ben poco, quasi tutto invoca il dio dei cristiani, grazie all’esportazione della religione cattolico-cristiana. I colonizzatori arrivarono nel XV secolo quando la civiltà Inca era all’apice del proprio splendore. Quattro gruppi, ognuno con il suo colore, lo studio delle stelle che corrispondeva a fasi di vita sulla Terra (il grande Lama disegnato sulla via Lattea). Percorrendo i camminamenti al secondo piano si ammira ciò che fu, con una nota dolente e una sensazione di impotenza per una bellezza infranta.
Scendendo verso il basso – Cusco è una città che sale – si arriva alla grande statua del mitico Imperatore Pachacutec, sotto il cui dominio (e quello della sua stirpe) gli Inca conobbero il trionfo sui nemici, una serie di invenzioni che li portarono a essere perfettamente integrati con la Natura, uno dei fondamenti sui quali la contemporaneità sta cominciando a ragionare e che, tanto, racconta di quanto per secoli il pensiero occidentale abbia non solo sbagliato ma ridotto con il genocidio popoli perché considerati inferiori, è il concetto dell’altro, dell’alterità, che comprende animali, regno vegetale, rocce.
Dopo una pausa in un café-libreria, toast con avocado e succo di papaya, risalendo la città si scoprono fontane e mercati, molti i negozi che vendono cucine a gas o elettriche.
L’altitudine all’inizio si sente un po’ nei muscoli delle gambe ma poi, a poco a poco, ci si fa l’abitudine.
Anche perché, per vedere i resti di Saqsaywaman che ospita il sito con rovine Inca più grande di Cusco, si risale il quartiere di San Cristobal (dove si incontrano i resti di un antico acquedotto e donne andine che portano a spasso alpaca e mini-capre).
La vista che si apre a Saqsaywaman (ingresso 70 soles, circa 27 euro) è magnifica, blocchi di pietra pesanti fino a 180 tonnellate, materia vivente appoggiata, chissà come, e disposta a mo’ di labirinti, porte verso il cielo – e lo dico senza retorica poetica – un camminamento di circa un’ora e mezza, nel vento, con una delle viste più belle sulla città (dal trono degli Inca) completamente immersi in un altro mondo-pianeta, presente eppure sembra di fare un passo indietro nel Tempo.
Ieri minacciava pioggia, anche oggi se per questo, lo stesso mi sono ustionato il viso (3.000 metri) dopo una doccia sono andato a mangiar presto in un ristorante piccolo ed elegante, che si trova al secondo piano di un antico palazzo nobiliare, fuori dal circuito turistico perché in una piazzetta del centro ma nascosta.
All’Inkazuela il fuoco arde nel camino, i tavolini sono apparecchiati con gusto sobrio e tovagliette gialle, piantine ovunque, pareti rosse, tetto verde; nel silenzio della sera rotta solo dalle stoviglie, mi metto seduto su uno dei tavoli che affaccia sulla piazza, non amo i cocktail e invece prendo un ‘Mama Luisa’ – a base lime -, pani zucca e rosmarino, salsa all’aglio, seguo il consiglio del cameriere (Jhoel, presente ma discreto) e prendo l’Inkazuela Carne Picante con Ajíes Peruanos, servito in terrina e pane caldo.
I passi di notte così sembrano più lievi, e stamattina sono pronto per prendere un treno che attraverso le Ande mi porterà ad Aguas Calientes, di lì le montagne sacre.