Florence+The Machine canta: “You want a revelation, some kind of resolution”, e mi rendo conto di essere arrivato qui dopo alcune suggestioni, ovviamente tutte sbagliate.
Sono partito per cercare il volto della protagonista di una storia, che spero di scrivere quest’anno. E poi. E poi vedere una parte dell’Amazzonia peruviana, quella della popolazione indigena Shipibo Conibo. Saperi ancestrali e vita quotidiana fatta di passione, potere delle piante, esperienza millenaria. A che punto è la deforestazione in uno dei luoghi più iconici del pianeta.
Il tempo si dilata, le abitazioni rade nel pueblo di San Francisco a due passi dal centro in cui sono fino a stasera: bambini che giocano a risalire piccoli terrapieni di sabbia. Le donne impastano ceramica, parlano Shipibo fra loro, e con gli stranieri in spagnolo (paradossalmente, penso, il linguaggio dello spietato conquistadores).
Ieri ho incontrato una ragazza venuta qui dalla Germania al confine con la Polonia, è venuta a trovare un amico. All’aeroporto di Pucallpa qualche giorno fa ho incontrato una ragazza americana, cieca, viaggia da sola, anche lei qui per venire a trovare alcuni amici, a cui mi unirò anch’io stasera. Una spagnola di Ibiza, venuta qui a cercare la sapienza delle piante sacre; altri, più o meno, di passaggio: un ragazzo umbro che vorrebbe fare un documentario sui saperi ancestrali – dal Perù all’India – e un’altra americana della California che, invece, invece sembra voglia dimenticare qualcosa o, piuttosto, guardarla in faccia senza che faccia più male.
Sono venuto in Amazonia, dopo aver visto la mostra fotografica di Salgado, perché mi ha chiamato. Pensavo fosse quella che qui chiamano la Madre, la terra, il contatto con il tutto conosciuto dai tempi di Lucrezio fino ai giorni nostri, piante e animali dotati del selvatico che noi, urbani contemporanei, abbiamo perso.
Sono venuto in Amazonia, in Perù, anche se la mia eroina è una guerriera degli Ashaninka, una popolazione che si trova più a nord rispetto a questo cielo boreale. Sono a sei ore di distanza da quella che, ancora, chiamo, casa e so già che questo concetto cambierà, così come sono cambiate le mie intenzioni mentre ero qui, anche se a “casa” appunto ancora non lo sapevo.
Sono partito con lo zaino leggero, come sempre, per camminare. Ho trovato volti distesi e parole di accoglienza. Altro che non so ancora definire. Ho visto un animale che sembrava un furetto nero, qualche sera fa, che si immergeva nei prati verdi davanti alle case su palafitta del centro. Nell’aria una voce parla da megafoni spersi nella foresta a due passi.
Non dureremmo un giorno in mezzo alla foresta, da soli, e mi viene in mente invece l’impresa di Lesly, la ragazzina Mucutuy che alcuni mesi fa, a seguito di un disastro aereo in cui sono morti tutti gli adulti e la madre, ha fatto sopravvivere i suoi fratelli e sorelle per 40 giorni nella foresta colombiana (qui la notizia) grazie alle “conoscenze ancestrali” trasmesse dalla nonna.
Qui ci sono alberi come la Lapuna, la pianta più alta del Perù, e animali come la rana Kambo, da cui si estrae un potentissimo veleno, è inverno ora ed è piovuto incessantemente nelle ultime 10 ore, le temperature si sono abbassate, fino a ieri il sole cocente, arido sul suolo, portava le temperature fino ai 34°C.
Condor girano sopra la casa palafitta sulla quale, è ancora mattino, scrivo queste poche righe di un primo blogdiary che non è quello che avevo immaginato. E questo allora è il primo insegnamento che apprendo. Stasera guarderò ancora le stelle di questo cielo. Domani mi muoverò verso le mie montagne. Ogni viaggio ci porta al successivo, mi dico, esistono viaggi che hanno al loro interno altri viaggi, quelli che (ancora) non sapevo.