IL NOME DELLE COSE – 6. La faglia

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E poi c’è la faglia spazio-temporale che tutti, in qualche modo, avvertiamo.
Il tremore sotto le gambe, il tellurico, l’inarginabile senso di vibrazione sotto i piedi.
La faglia è la sensazione di aver visto qualcosa, o qualcuno, la nebbia che cela la vista. Una traccia in un vicolo, un’ombra, un fantasma.
Il limitare tra il visibile e l’invisibile di Novalis. Il sottosopra, Alice attraverso lo specchio, Dorian Grey, i morti e i vivi. La menzogna, l’intuizione di una crepa nel Tempo, che origini una storia a metà, incastrata tra passato-presente, un non-romanzo ambientato a Napoli, scritto dopo un’idea intuita, Nostradamus e Cagliostro, una “faglia” appena di quella che ci ostiniamo a definire creatività, ispirazione.
La faglia spazio-temporale è il vortice di non essere mai, veramente, di questa Terra.
È la sensazione che assale quando cammini e sai che il prossimo passo è il tuo, eppure in qualche modo non lo è. Stai solo seguendo le orme, una traccia effimera, un segreto sussurrato chissà quante altre volte nello ieri che continuiamo a chiamare, Storia.
Giuda e i trenta denari, L.A.Confidential, i doppiogiochisti, Stati Uniti e Russia confuse in uno stesso continente, cherchez la femme.
La faglia è il non-tempo.
La costruzione di qualcosa di più grande di noi mentre stiamo agendo.
La terra che si sposta, la sua ripercussione, a chilometri di distanza.
Il battito del cuore del ragazzo raccontato da Maylis De Kerangal in Riparare i viventi, il vecchio e la donna nell’Autunno di Ali Smith. Il sogno e la realtà. Un pezzo di noi che aggiusta qualcun altro.
Lo spettro rosso gigante sopra un ponte, mentre sotto lo sguardo vacuo e vuoto della morte passano famiglie in macchina, cani, nonne, bambini col gelato.
C’è qualcosa di nascosto nei giorni, che non conosciamo.
È l’imponderabile che percepiamo solo a tratti, quando non siamo presi dal meccanismo del tempo.
Quando ci sfiliamo dalla morsa delle ore, e intuiamo un suono sfuggevole, un astuto tintinnio messo lì da qualche spirito guida, infido e mellifluo che vuole farci perdere il senno e la ragione, il sonno e il sentimento.
Amori perduti, rospi parlanti, yōkai, donne senza volto, ombre giapponesi, maestri drago, bambine alle quali Yubaba ha rubato il nome, e allora se conosci il vero nome di una cosa la possiedi, come ne La saga di Terramare di Ursula Le Guin.
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La faglia è l’apertura di un buco tra due mondi.
I vivi e i morti.
Il dicibile e l’indicibile.
Che speriamo e di cui, fatalmente, abbiamo paura.
Esiste un punto di congiunzione in cui la non-vita si attacca all’esistenza.
Gli oggetti, i luoghi, il soffio di vento dietro il collo mentre scrivo chiuso in casa. La sensazione di ghiaccio nelle vene che brucia i polmoni.
Esiste un ponte, un collegamento tra i tempi.
Il passato, il presente, il futuro.
Nei multiversi possibili di cui noi non siamo che un possibile accadere.
Da qualche altra parte ci sarà un altro me che vive ciò che ora, qui, è un bivio narrativo possibile, ipotesi di un futuro probabile nel quale manca ancora iscrivere la variabile presente.
La faglia è quel che ci divide da ciò che non riusciamo a comprendere.
Il sotto e il sopra delle cose.
Le nostre ombre attaccate ai piedi.
Ricordi o mostri. E poi la pioggia a dilavare i pensieri.
Inventare un punto in cui tutta la vita, nostra e di chi amiamo, o anche degli sconosciuti, si incontri.
In un certo vicolo di un certo luogo. E lì si concentra e deriva i possibili snodi circolari di cui una vita si compone.
Il prima: come eravamo, perché siamo divenuti ciò che siamo.
Il durante: cosa ha causato quel nostro essere, quali le scelte.
Il dopo: gli effetti delle nostre azioni, i risultati della somma tra ambiente e individuo.
E se invece non esistesse un prima, un durante e un dopo. Ma solo un unico grande impasto primordiale in cui gli estremi spazio-temporali si tocchino, congiungano, alternino, alterino a vicenda. Oppure no. Non si possano toccare, salvo rimettere in discussione l’uroboro che dal primo giorno dell’Universo ha causato cicli e ricorsi, la vita sempre uguale sul pianeta.
Un colpo di tosse appena sulle esistenze di milioni di persone e una catastrofe silenziosa azzera progetti, passioni, amori, slanci.
La faglia non è la morte.
È il punto di congiunzione in cui la vita è, anche, morte.
È il sopra e il sotto.
Senza opposizione. È la comprensione della compresenza e della simultaneità.
L’accettazione del fatto che la logica stringente aut aut è una semplificazione imposta a priori per non impazzire.
Il confine valicabile tra un tempo superato e fermo e la contemporaneità in divenire.
L’alto e il basso, rigirati, in un vortice, la sezione aurea, l’equazione polinomiale a coefficienti interi di numeri consecutivi, la successione di Fibonacci. Un’intuizione matematica algebrica.
La vita, il silenzio oltre l’esistente.
La capacità di sapere che re, guerrieri, Valchirie, dinosauri, Pangea, la tettonica delle placche, Sant’Andrea così come quella del Cile, attraverso l’Anatolia e i venti siderali che vi giungono attraversando i mari e i ghiacciai in ritiro, le screziature sotto traccia, invisibili agli occhi, il pulviscolo al sole di una finestra d’estate, la noia che non è altro che tempo in avanzo, senza impiego, i nostri corpi e le menti non applicate, tempo “puro” e le nostre ombre allungate sui muri di una città del nord Europa, una città che è contemporaneamente vera e fantasma, allo stesso tempo.
Vera perché composta di muri e persone in un dato istante. Autobus, pub, locali, statue, tifosi di calcio, bambini, affiche pubblicitarie, studi di design, musei, quartieri vittoriani, sottoscala abitati, biciclette, fish and chips.
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“Fantasma” perché i musei, le tele, i quadri, i vicoli, tutto è già stato abitato, visto, conosciuto, coniugato, costruito. I castelli che ancora oggi restano eretti contro le intemperie, così come i colli sopra i boschi delle città, tracce di un passato che viene continuamente rinnovato nei racconti, nelle storie tramandate, imparate a memoria dai tour operator per affascinare i turisti ai bordi delle strade, a bocca aperta di fronte agli ennesimi saltimbanchi che dal Medioevo a oggi, incantano, intrattengono con i loro numeri fatti apposta per stupire adulti e bambini.
Una città è quello che è, ma anche l’emotività con cui la si affronta. È il punto di intersezione fra il nostro stare dentro e il fuori. Fra ciò che chiamiamo scoperta della sua evidenza sociale, geografica, il suo cibo e i suoi vettori urbani. E, dall’altra parte, come ci arriviamo, il nostro stato emotivo, di salute, i nostri pensieri.
Una città è un confine tra ciò che vediamo e quello che “possiamo” vedere.
«Non vediamo le cose per come sono, ma per come siamo», le parole di Anaïs Nin iscrizioni sul muro di un presente che lei non conosceva e, in qualche modo, invece sapeva già che un giorno sarebbero state lì, fissate in un altro spazio-tempo. E così la percezione di Anaïs, l’effetto Nin, che si iscrive in un dato punto temporale, la “faglia-passato” che si imprime nel presente, nell’ora e qui sino a generare la “faglia-domani”, il futuro possibile segnato fin dagli esordi nella soluzione dell’equazione finale in quell’unico modo, solo e possibile, date le premesse.
Un effetto domino iniziato ieri, o ieri l’altro, che ha, in nuce, lo sviluppo successivo, che ha in sé, fin dal suo esordio, la capacità di percepire l’inattesa, prestabilita, catena di eventi che hanno portato proprio lì, in quel modo, quel giorno, in quell’attimo esatto, le due macchine a scontrarsi.
Una faglia di ghiaccio a terra.
Un uomo esce da casa sua.
È il trentuno dicembre di un anno qualsiasi di una vita qualsiasi sul pianeta Terra.
L’uomo saluta sua moglie, di là un bambino dorme, non sa che l’uomo sta uscendo.
È freddo. Sarà la fine di un altro anno, tra poco.
L’uomo prende la macchina, si incammina, il motore tossisce, l’uomo tossisce, accende una sigaretta.
Ed è nell’attimo in cui si distrae per innescare il metallo a contatto con il pollice gelato, l’istante in cui per un millesimo di secondo l’uomo toglie lo sguardo dalla strada, una lastra ghiacciata che lui non è in grado di prevedere, percepire, che la scintilla scocca all’interno dell’accendino e lui rimette la mano al volante ma lo slittamento sulla faglia del tempo è già partita, inesorabile.
Non si torna indietro. È legge della Fisica.
E così l’uomo riporta la mano sul volante, ma la macchina è già in scivolo sulla lastra di ghiaccio.
E dall’altra parte, altri due uomini, contadini, un mercante del millecinquecento, un banchiere del diciannovesimo secolo, il brillante avvocato del futuro, che importa – in quanti siamo già morti tutti, mille e altri milioni di volte – la macchina devia il suo asse di rotazione e si inizia a confondere con la morte che viene in direzione contraria, che coinvolgerà tre vite innocenti, ma che vuol dire, mica muoiono solo i colpevoli, in quel secondo che vale una vita, venti, quelle tre esistenze si frantumano in uno scontro di ossa e carne, metallo e ricordi, ciò che sarebbe stato e non sarà più, tutto il non detto, ciò che non saremmo stati in grado. Poiché l’incompiutezza, l’incapacità, non essere mai all’altezza. Tutte le volte che ci saremmo arrabbiati, innamorati, il profumo della lavanda, il tuffo del cuore, le foglie di un albero, chiamare “giallo” il giallo, respirare l’aria che viene dal mare, vedere scintille che riparino chiglie e scafi, il vento del nord, la vita che porta altrove. I sogni condivisi e quelli ancora nemmeno pronunciati. Perché non si sapevano le parole. Non si conoscevano le porte di accesso, l’imbarco.
Ed ecco in quel punto d’intersezione, nella faglia in cui quella vita si comprime, tutto il passato, la catena infinita di eventi che ha portato quell’uomo a transitare su quella strada, in quel luogo preciso, a quell’ora del mattino di quell’anno e di tutti gli anni possibili, tutte le vite finite così, nell’anonimato di ogni esistenza, in quella faglia spazio-temporale quell’uomo che è stato bambino e poi adolescente, quel ragazzo innamorato che avrà detto, Ti amo, quante volte? Una, cento, sette, l’uomo si schianta e con lui tutto il processo di rivoluzione permanente a cui era attaccato, fino a un secondo prima, fintanto che tutto, tutto, poteva essere possibile.
Nell’incontro tra la nostra vita e le persone che abbiamo accanto. Io, tu, e poi il noi, il rapporto di due esseri viventi che è sempre un altro numero, il due (io, tu) che – in verità – è sempre un tre (noi).
In quell’istante l’uomo muore. Con lui, gli altri due.
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Lo schianto si riverbera per un istante nell’unico crash del mondo.
Un attimo di frastornante silenzio. Lamiere che si accartocciano e non sapremo mai se l’uomo ha sentito il dolore della frattura alla costola mentre l’automobile si è schiacciata, ripiegandosi su se stessa per l’urto, mentre a soli cento metri un giovane cervo maschio osserva la scena in mezzo alla neve ghiacciata, gli occhi neri, l’orecchio che si muove in maniera impercettibile a seguito dell’onda che infrange lo spazio.
Quella mattina è nevicato sin dall’alba. Il richiamo dell’uccello poco prima della migrazione.
Un’altra faglia, il sapere che si iscrive nel dna degli animali, che sanno senza sapere. Sanno per ereditarietà.
In quell’istante in cui l’uomo muore, e gli altri due finiscono la durata di esistenza in vita insieme a noi, gli altri, chi amano, con loro muore quel pezzo di vita possibile. Ma nel computo totale non importa.
La faglia è più grande, è l’insieme mentre accade.
Numeri composti da variabili in movimento, centrifughe irrubricabili composte da nessuna impronta, decodificati da nessun codice.
L’equazione finale non esiste.
La vita dell’uomo distrutta in quanto? Trenta secondi.
Ma gli effetti di quell’intrusione del non-tempo, la domanda non è tanto quanto durerà, ma su chi, e come? Il tempo una durata che non esiste.
Negli ultimi istanti di vita di una persona si dice che si riveda tutto ciò che ci ha portato lì, a rallentatore. Come in preda a uno stato di flow in cui un secondo vale una intera esistenza.
Anni. Iscritti in un secondo.
La compressione di un tempo lungo in un frame di vita.
La faglia è il tempo che diventa linea. E la linea, il segmento che decidiamo di prendere in considerazione.
Un anno in dieci secondi.
Un secondo per una vita.
I sogni bruciati in un istante.
L’attesa di un’idea che non si verificherà mai.
Non siamo che mancanza.
L’uomo muore e, nello stesso istante, anche se non è possibile, nell’attimo esatto in cui suo padre muore, il bambino nella stanza si sveglia, piange, senza apparente ragione, dirà la madre a distanza di anni.
Ma non è vero.
E noi, tutti, lo sappiamo.
È la faglia.
La riunione dell’unico Tempo che ci compone.
Tutto, molecole e natura.
Non siamo che istanti che bruciano in uno spazio minuscolo e replicato.
Le azioni che compiamo, stermìni e prevaricazioni, guerre, carezze.
Cerchiamo ragioni che non esistono per comportamenti che restano uguali nel tempo, che abbiamo già compiuto in un anno che dovrà ancora essere. Un presente eterno in cui io sono mio padre. Quel cervo, quella mattina di dicembre, in cui lui è morto e io mi sono svegliato, da solo in quella stanza piangendo.
Lì, in quella faglia, io sono nato al mondo.
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