“Sitopia”: il cibo può salvare il mondo?

unnamed
“L’uomo è ciò che mangia”, diceva Ludwig Feuerbach: è appena uscito il saggio di Carolyn Steel, Sitopia sottotitolo Come il cibo può salvare il mondo (Piano B edizioni, 20,00 €) a proposito del termine /sito’pia/ s.f. luogo del cibo (dal greco sítos, cibo + tópos, luogo).
Che il cibo sia il “sito” del nostro essere a contatto con l’altro, il mondo, la relazione fra corpo singolo e collettivo.
Ci stiamo rendendo conto che il modello economico e sociale, le nostre scelte quotidiane – come ci spostiamo, il modo in cui trascorriamo le giornate, fruiamo i servizi, mangiamo – determina, e determinerà, il mondo che abitiamo, il futuro che sarà.
In ballo, c’è la sopravvivenza della razza umana sul pianeta. Se i ghiacciai della Groenlandia si sciolgono, e si scopre sotto sono pieni di mercurio, la Terra è in grado di assorbire qualsiasi tipo di scoria: è solo una questione di tempo (più o meno il nostro sistema solare dovrebbe vivere per altri 4,5 miliardi di anni) altrettanto non si può dire degli uomini.
Quanto sia la durata effimera di una vita, al netto di virus e dalla spietata legge economica degli uomini che finora ha governato il nostro stare sul pianeta con la mannaia dell’antropocene.
Il saggio di Steel (con illustrazioni in bianco e nero) considera il cibo come medium. Parte dagli ultimi ritrovati sulla carne coltivata, “il problema di come vivere è intimamente connesso al nostro DNA” scrive l’autrice – architetto, accademica, scrittrice, il suo primo libro Hungry City è stato scelto dalla BBC come libro dell’anno –  “E al centro di una simile domanda c’è la questione di come mangiare, altrettanto fondamentale per ogni essere vivente”.
Il mangiare come base, il cibo modella le nostre vite, è design del quotidiano: se mangio tutti i giorni hamburger e patatine fritte avrò, probabilmente, qualche problema con il colesterolo e il peso; se mi nutro di insalata e acqua e basta, forse, avrò necessità di introdurre fibre e grassi di origine vegetale nel mio organismo, prima che vada in deperimento organico.
Se non è vero che penso dunque sono, Steel ribalta la versione dell’esistenza kantiana nel pensiero della sitopia: che “a differenza dell’utopia, che è ideale e dunque non può esistere”, dice, “è assolutamente reale”.
Sulla pragmatica delle utopie, e la necessità del pensiero ideale, non ci soffermiamo, lo stesso l’autrice pone giustamente l’accento sulla standardizzazione dei pasti, la cultura del food applicata a un bisogno primario, l’industrializzazione che ha indotto le persone a credere che i polli, invece che nell’aia, crescano già anabolizzati nelle corsie dei supermercati, possibilmente eviscerati e con un involucro di plastica atta alla conservazione.
pexels-elle-hughes-5764066

Foto di Elle Hughes da Pexels

“Per vivere dobbiamo mangiare; per mangiare dobbiamo togliere la vita”, a partire anche da discutibili assunti (tutto è discutibile, tutto è parziale, dipende dal punto di vista e dallo spirito del tempo) Steel analizza gli stili di vita, torna al Levitico, al pane e gli ebrei, scomoda ila Genesi e il modo di Adamo, la disciplina epicurea – il piacere è l’obiettivo di una vita felice – il cibo è disciplina per la mente, c’è una questione di gusto e di peso relativi a quello che noi, oggi, definiamo “food” e invece dalla notte dei tempi è semina, coltivazione, raccolto, trasformazione.
Mangiare è anche abitare, vivere la cucina, il fuoco elemento primordiale e atavico nella storia dell’umanità, e se la dispensa è un invito alla parsimonia e alla previdenza – leggiamo in Sitopia (Piano B) – è altrettanto vero che Prometeo ruba il fuoco agli dèi per donarlo agli uomini, anzi all’inizio alle donne che così, forse per questo, vengono trattate solo quali divinità della casa. Ma il mondo è fuori, e il nostro mondo oggi è fast. Il food così da semantica del corpo è divenuto slittamento temporale, mangiano male e veloce. “Consumiamo” i pasti, non mangiamo più tutti insieme, tavolate e braci dopo la presa di Ilio, o dopo la caduta delle mura.
La natura e l’uomo, Steel fronteggia in parallelo la società e gli animali, il prezzo e lo stato naturale delle cose. L’artefatto e gli spiriti. Ogni cibo infatti incarna, ciascuna scelta determina.
Ogni cibo è trasformato e, a sua volta, ci trasforma: se mangiassimo solo cioccolato, o riso e fagioli, saremmo uguali, saremmo sempre noi o una versione diversa di noi stessi?
Passando da Marx alla plutocrazia, dall’economia buddista allo slow money di Petrini, il punto, o uno dei punti nodali, dice Carolyn Steel è che non tutto è solo economico. Dobbiamo uscire dalla città dei consumi. Integrare la città alle foreste. Stando attenti alla binomialità selvaggio/civiltà (il rischio di altre pandemie). Ragioneremo sulle fattorie verticali? Come si evolverà il paradosso urbano, quali i possibili sviluppi di un ritorno alle campagne? Non tutto è sempre e solo guadagno. Lo vediamo in questi giorni di disastri e funivie. Lo vedremo sempre di più in futuro: come mangeremo, cosa, e quanto. Se nel 2100 saremo/saranno 10 miliardi sul pianeta Terra.