“Di luce propria” di Raffaella Romagnolo

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Nella vita le cose più importanti non le capisci mai veramente, forse, le capisci solo dopo anni. Ma lì per lì non riesci a metterle a fuoco. Sono tremule, come i ricordi, emergono sfocate ragioni al massimo le distonie. Così quando il fotografo Antonio Casagrande inizia a ricordare i bei tempi della fotografia al nitrato d’argento e uovo, le immagini abitate dagli spiriti dello sviluppo fotografico, aloni di mistero attorno alle silhouette, apprendiamo che l’eroe appare sulla Terra a metà Ottocento, generato da ignoti lombi (lemma tornato di forza nella letteratura contemporanea, anche grazie alla nuova “puntata” dell’Odissea di Nìkos Katzanzakis, meritoriamente tradotta dall’editore Crocetti).
È quanto accade nelle prime pagine dell’ultimo romanzo di Raffaella Romagnolo, Di luce propria (Mondadori,€18). Sino a che Antonio smette d’essere orbo, quando va a bottega da Alessandro Pavia il fotografo che “eseguisce ritratti di famiglia”, ed è qui l’intersezione della lingua di Romagnolo si innesta con il vento di Ponente, e la Liguria passa dall’orfanotrofio del Pammatone alla campagna, attraverso il pisciocavolo che gli altri ragazzini fanno bere ai più piccoli, e ai deboli, alla padronità. È così, ordunque, che il ragazzo di bottega Antonio passa dall’olio d’oliva a quello della lampada per sviluppare immagini, del resto è così che si costruiscono i sogni: al buio e a occhi stretti a forza di concentrazione.
Antonio che cresce tra dagherrotipi e acido pirogallico, nel frattempo si fa l’Italia e lui sempre accanto a Pavia mastro repubblicano che si contenta di andare a colloquio dal re, ma a Firenze gli tocca imparare le parole, tagliarsi i capelli, fino a che Vittorio Emanuele II scompare alla vista e garzone e maestro prestidigitatore tornano a Borgo Di Dentro, genius loci onnipresente nelle narrazioni di RR.
E però – perdio! – il padrone sceglie proprio lui all’orfanotrofio, Antonio il ragazzino orbo e selvatico. Lui destino fallato, merce avariata. Antonio con la pupilla cieca, bianca, schifosa. Lui sbaglio della vita, nato tra Sottoripa e porta Soprana. Eppure, così, sedendosi, considerando il mondo per l’enorme pedata nel deretano che è, il piccolo Antonio cresce e comincia a fidarsi del maestro di bottega, della sua burbera presenza, che gli insegna a fare le magie. Gli insegna l’arte della fotografia!
E poi, la notte. La notte per un occhio bianco liquido cos’è. Cos’hai fatto. Le domande senza vergogna dei più piccoli. E ci vedi. “È luce pura, è una perla”, Antonio che lo sa, che la luce illumina. Tutto. Il mondo, le vite, “tutto si può fotografare: questo albero, questa foglia”. Il bosco perfino.
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È una storia raccontata al presente, una super8 dalla grana iridescente, si potrebbe scomodare il termine romanzo di formazione per Di luce propria, una narrazione in cui l’autrice si cela appena dietro una voce, un richiamo, un filo d’erba. Un’inquadratura. E così sfilano i volti silvani, e non, nel riflesso al nitrato d’argento. I mezzadri e la cornice storica di un’Italia tutta da farsi, a Borgo di Dentro come nelle campagne. Romagnolo ci porta indietro nel tempo dentro la sua scatola magica con cui proietta ombre vive, lumini e casse a mano fatte di legno, un banco ottico su cui sfilano i contadini e i Garibaldi che fecero l’impresa, fondi di nostalgia per un paese che poteva fin dall’inizio fare le cose per bene e invece, le guerre fratricide. Nord e Sud, padroni e operai, masserie senza allodole e una civiltà contadina che in meno di un secolo si sfascerà completamente.
“Fulmicotone e collodio”. La “frittata di cipolle”. “Bizzarie”. Nei termini e nel lessico di Romagnolo non c’è strizzata d’occhio né semplificazione, il lessico scorre a terra, così come “il ragazzo si farà” i testi delle canzoni di Francesco De Gregori si mischiano qui alle note delle monete tintinnanti con cui a quell’epoca si potevano comperare i sogni, persino. Un centesimo e un posto nella Storia. Quantomeno una sedia sulla quale farsi immortalare, bambini e gente semplice, che improvvisamente si vede e siccome si vede tramite la fotografia, allora esiste!
Romagnolo ci fa comprendere che la fotografia ha avuto un ruolo nella restituzione delle vite. Un ruolo quasi politico nella misura in cui gli individui cominciano a potersi guardare davvero, da se stessi, si riconoscono, e allora possono prendere corpo e misura. Ingombro nello spazio, nel tempo.
Atelier de photographie, i termini desueti continuano, così il recupero dell’Ottocento nella contemporanea. I grandi temi che hanno portato la saga dei Florio a sbaragliare le classifiche, le serie a produrre capolavori come Peaky Blinders, e a breve su grande schermo il film che celebra la Tour Eiffel, di metallo e cilindri, gonne a balze ed eleganti baffoni.
Abbiamo finito il futuro e allora, che sia a colpi di neorealismo o steampunk, torniamo al passato.
Allo stesso modo il filtro della storia di Romagnolo si sviluppa come J.-K. Huysmans à rebours, tanto più la vicenda di Pavia e Antonio va avanti, quanto più si torna indietro nel tempo: quello di Romagnolo in Di luce propria è una struttura narrativa inversamente proporzionale ai ricordi. In fondo quel che accade nelle nostre menti. Quando invecchiamo sappiamo poco di oggi, non ci affidiamo a domani, ma conosciamo bene tutti i nostri ieri.
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Romagnolo scrive storie a geografia invariabile, i carrugi e Boccadasse, i repubblicani e gli anarchici, l’Italia in cui si crepa e vive, lavora e muore. Se nella sua saga Destino, però, c’era una sarabanda di personaggi, qui Antonio passa i vicoli e gli anni come passa la felicità. Come finisce il tempo in cui il padrone Pavia se ne deve andare. E Antonio rimane da solo. Via. Mentre tutto scorre. E Antonio passa alla matrona, dopo il padrone, stesso suffisso coniugato però ai servigi delle meretrici, ragazze come tante che fanno il “mestiere più vecchio del mondo” e parlano e mangiano e dicono “taffetà” e “mussola”, termini desueti, di nuovo, un’Italia elegante, d’antan. Anche qui l’autrice utilizza la tecnica huysmansiana, entra nella vita di madama Carmen il cui vero nome è Rosetta che, delle ragazze, incassa la marchetta. Così torniamo ancora una volta indietro nel pozzo della memoria nel passato di un altro personaggio, altro giro di vita, i fianchi che si allargano e il dolore che schiaccia. E Antonio che inizia a fare ritratti alle ragazze, cinque lire a foto e la Provvidenza. Sotto forma di lavoro, tra un’erezione e l’altra. Diciassettenne anni passano così, senza che neppure te ne accorgi. Senza rimorsi.
Ed è così che arriva la morte di Mazzini che spazza via un altro pezzo di Storia. Rientriamo nei giri dell’Unità d’Italia, e del post unitario, dei cavalli e le carrozze, quando il mondo non andava avanti a social ma a socialismo: “gente che aveva combattuto gli austriaci a Milano, i Borboni a Napoli e il papa-re a Roma”.
Tutto passa nei romanzi di Romagnolo. Tutto è vento, impavido, non s’ha paura di dire né di pretendere. I personaggi vigorosi, e le parole al posto loro. Come la giovinezza, come le parole che non vengono. Come questa memoria italiana corta e dissipata, fratricida e poco conosciuta. Nessun epos per la metà Ottocento del Belpaese, mentre conosciamo eccome il Far West e la guerra tra nordisti e sudisti dell’America hollywoodiana. Eppure sono gli stessi anni. Lo stesso mito. Il nord contro il sud. Alla fine cambia tutto così che non cambi mai niente. E la frase più famosa del gattopardo rimane impressa lì, perenne.
Il tempo è a scatti e salti in questo romanzo. Il tempo è cosa buffa. Pieno di nodi che si intrecciano e vite che no. Anche quelle ai portici, e quelle ai velieri alla fonda, “il mare è dappertutto, dentro, fuori, oltre, una riserva di luce che si sprigiona”, e così le vie assumono contorni precisi, di nuovo la geografia delle narrazioni. Le vie si intersecano come prove di strada, nomi e vicoli, punti di raccordo per i personaggi che popolano questo spazio-tempo. Lo spazio si fa largo, come uno zoom sul mondo di Antonio, che a poco a poco trasmuta in nontempo, la morte, la vita che fugge dalle persone e che lui in qualche modo riesce a vedere prima che accada, come l’occhio cieco, glauco gli permetta di fissare la nebbia attorno, il liquido amniotico, la pasta agglutinata della Morte solenne che coglie tutti gli esseri umani, la fine dimenticata, impressa su una lastra.
I 16 anni successivi, l’ingresso nell’età adulta di Antonio si farà con l’inaugurazione del bordello di prima classe di madama Carmen che diviene Lady Violet, mentre Genova è lontana, la città cantata da De André, piccola e puttana, margine e peccatucci permessi agli uomini d’alto bordo dell’epoca. È una stoccata con garbo, anche questa, una strizzata d’occhio ai termini del contratto sociale contemporaneo, in cui le femmine fanno le segretarie, gli uomini i capi. Con godimento d’entrambi ovviamente, se pur in posizioni diverse, sopra o sotto il tavolo, Monica Lewinski docet, e differenti trattamenti economici.
L’occhio pazzo di Antonio sotto il panno nero attende il mondo, si nasconde: è lo sbaglio del sentirsi strani, diversi, mostri che non meritano niente, né cura né perdono né amore. Nemmeno l’amicizia dei ragazzini normali, Marco per esempio che non ha menomazioni.
Romagnolo parla la lingua minore dei perdenti. Degli sbagliati.
Ma chi è Giorgio Brown?, la vicenda ci porta nei vicoli e nelle adunanze segrete, snocciola i nomi dimenticati dei Mille che fecero l’impresa, che poi sia stata sabauda più che borbona, la narrazione ha il pregio di mettere il dito nella Storia, a rischio di sporcarsi con la panna del Tempo.
È così che la scrittrice spolpa il periodo, con pochi tratti di contorno e molti personaggi, uno stile piano ma non pianeggiante, persino l’esecrabile uso delle liste o dei punti, ma in Di luce propria tutto è utile alla storia, non si guarda altro se non Antonio che cresce, come nel Mr.Vertigo di Paul Auster (Einaudi), in cui il ragazzino diventa mago e impara (davvero!) a volare, qui Antonio impara a guardare. Reduci e Porta Pia, “la spada in fiamme dell’arcangelo”, il padre che manca, il padre che muore.
L’autrice intreccia Freud e la patria, alla fine quando una cosa ti spaventa basta vomitarla.
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Solo che non c’è Teseo che dice ad Arianna che “il minotauro alla fine, Arianna, di nuovo la invoca, non s’è quasi difeso”. Non c’è Dürrenmatt che tenga, c’è il Novecento però, e la mirabile ammirazione per la scienza moderna, quando gli uomini del secolo credevano nel progresso, che tutti saremmo stati meglio, che tutti saremmo stati bene, che tutti saremmo. Morti. 37 milioni di morti nella Grande Guerra. 60-70 milioni nella Seconda Guerra Mondiale. Il corteo degli estinti.
In Di luce propria Raffaella Romagnolo passa in rassegna le esistenze. Ci dice che i morti parlano. Basta solo ascoltare. Anche se sei sordo, o hai l’occhio pazzo: “Se il fantasma c’è, lo catturiamo e lo imprigioniamo in un’immagine”. Ma quali sono i fantasmi che ci portiamo appresso, quale morte nel cuore? Mentre il tempo passa e le stagioni sgretolano. Eppure dei sogni nelle storie di Romagnolo v’è traccia, eccome. Fotografare come tecnica spiritica, nell’epoca della morte delle immagini. Oggi che tutti siamo fotografi, nessuno lo è più. Oggi che la guerra è ovunque siamo solo noi a essere ciechi. Il golpe digitale, come titola Internazionale di questa settimana. Ma che ne sapeva Antonio, della vita virtuale. A fine Ottocento si credeva che “La morte non esiste” perché “finché sei vivo, sei vivo”, le parole di una delle ragazze. E noi che dormiamo, assenti ai sogni, pavidi, noi che viviamo il presente in uno schermo, apprezziamo di nuovo la professione, il mestiere che solo fa le cose per bene, che sia aprire le gambe o un obiettivo. La peccatrice penitente che insegna più dei notabili. Il bordello come rinascita. Dal buco nel petto alla camera oscura. Le belle mattine luminose in cui per un breve istante, pure, avvertiamo la nostra immortalità. Ci sono solo domande.
Il tempo di Romagnolo è un tuffo nelle Esposizioni Universali: “Che aspetti?” gli domanda madama Carmen, e la domanda è tutta lì, nel breve istante di un miraggio. Cosa attendiamo, che tutto sparisca prima dell’alba? Così che tutto sia dissipato e non avremo toccato la sua pelle.
Antonio a quel punto diventa esperto, dopo il mestiere delle immagini impara l’arte d’amare, che non è per forza l’amore ma piuttosto la ciliegia da cogliere, e lo stomaco a pezzi.
Una manifestaione  nella zona di Porta Venezia (Wikimedia)
Una manifestazione nella zona di Porta Venezia (Wikimedia)
Milano, sabato 7 maggio 1898
Maggio, e Milano toglie il fiato”.
Me lo aveva detto Romagnolo che la parte su Milano mi sarebbe piaciuta. Leggo allora delle cannonate contro la gente che reclamava “Pa-ne. Pa-ne”. Pa-ne e farina per il popolo dopo la grande crisi del 1896. L’annus horribilis, l’ennesimo. E riconosco.
La peste se non è peste è fame. I quattro cavalieri dell’Apocalisse sotto forma del tenente generale Bava Beccaris che fa sparare sulla folla, diretti ordini dal re che di lì a poco cadrà sotto le pistolettate del sarto americano, quel Gaetano Bresci la cui idea di giustizia si abbatte sul petto di Umberto I, dal popolo ribattezzato re Mitraglia.
Ed è qui però tra i morti e le infermiere uccise che Antonio Casagrande crolla e la levatrice Caterina Colombo lo raccoglie. Spettro egli stesso, a sua volta, per la prima volta in vita sua è Antonio il fantasma da guardare, il pianto, conosce l’impotenza, la delusione delle capacità, il tradimento delle attese.
Le saette e l’occhio sotto la benda, Bava Beccaris diventa senatore del regno, Anna Kulischov compagna dell’onorevole Turati, è lì che Antonio comprende la sua vera cecità: quando incontra di nuovo Caterina Colombo, che si dona di nuovo a lui, la cicatrice sulla pancia, un bagliore lattescente appena. Il ricordo riaffiora, Romagnolo di nuovo come Huysmans, a far male ai ricordi, Caterina che parla: “Non vado bene per nessuno”, mentre snocciola dolori, 13 giorni e la durata di una vita, un soffio appena.
“La malattia. La morte. E in mezzo, tre figli. Troppa vita”.
Il romanzo lirico e storico di Romagnolo è tutto così. Soggioga e infiamma madido di storie. Strappa visceri e lenisce.
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A Borgo di Dentro c’è il mondo, i grappoli, le vallate, uomini in vigna all’alba, il marsala (chissà in quanti di noi lo abbiamo assaggiato, questo sapore démodé). Aveva ragione Vasco Pratolini pare dirci quest’autrice, all’attivo romanzi come Masnà e Destino – il preferito per chi scrive – tradotti e apprezzati all’estero, soprattutto Germania, Svizzera e Austria e fra poco in francese per il prestigioso editore Albin Michel: è nei vicoli stretti della Storia che cova l’animo degli uomini, la pancia delle donne come la terra, cavità stretta da cui pure nascano frutti.
La storia qui s’intreccia con le rivolte contadine, le sfiora appena, sfioriscono le viole, così Garibaldi che non si vuole far comandare da nessuno, Quarto dei Mille 1915, i tigli sono in fiore, e poi infine madama Carmen di ritorno da Parigi con grandi progetti appena finita la guerra!
Oggi non siamo più pittorialisti. Non pensiamo al ruolo della fotografia. Viviamo immersi nel mare continuo dell’immagine. Siamo tutti ciechi. Perché per vedere occorre saper usare la luce. Anche al buio. Persino nei momenti difficili, ma “gli uomini sono duri di comprendonio”, “i bambini invece capiscono subito”. Cercare di brillare, ci suggerisce con delicata gentilezza il ragazzo magico di Raffaella Romagnolo.