Lettere tra due mari

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Ne scrivo mentre è appena passato il World Water Day, la giornata mondiale dell’acqua. E mentre oggi sono stati avvistati i delfini nei canali di Venezia (qui il video). Il meraviglioso che ci nuota accanto. Ma non ce ne rendiamo conto. E’ strano pensare che ce ne dobbiamo ricordare, del fatto che esista mare, mare tutt’intorno.

Un po’ di numeri:
– il 71% del pianeta Terra è composto d’acqua
– il 97% di quest’acqua è condensata dei mari oceani, il 2% circa è trattenuto dai ghiacciai, nemmeno l’1% è costituito da fiumi, laghi, falde acquifere, etc.

Tradotto. Siamo una goccia.
Il nostro mondo emerso vale un terzo della superficie dell’organismo sul quale andiamo a spasso nell’Universo.

Deve aver pensato questo, o chissà che altro Siri Ranva Hjelm Jacobsen, scrittrice danese, nel suo Lettere tra due mari (Iperborea,€14, trad. it. Maria Valeria D’Avino, illustrazioni Dorte Naomi), che nell’esergo cita il poeta William Carlos Williams, da noi misconosciuto poeta cantore dell’America primeva, sulla cui figura il cantante-regista Jim Jarmusch ha diretto il film Paterson.
Lettere tra due mari è, come recita in modo apparentemente pleonastico persino il titolo, uno scambio epistolare – appunto – tra due mari, Atlantica e Mediterranea. Eppure v’è di più, è forse una forma ibridata di saggio e poesia, copione letterario e aspirazione al canto epico, Omero nel Baltico.
Due oceani sorelle: l’anziana “centottantenne” A e la giovane “cinquemilionenne” M.
E subito la domanda di Jacobsen arriva, allora, eterodiretta, subacquea: quanto vale un giorno per il mare, le onde e la schiuma che da secoli scaricano sulla rena i sogni e i rimasugli delle civiltà? Quanto una notte per una manta, o il peso di un uomo per uno squalo, una balena bianca, una goccia di mare?
Le lettere che si scambiano i titani sono epistole semplici, piene di piccoli e grandi pesci, schiocco e baccelli, piccoli crostacei e richiami a cosa stia facendo la sorella Artica con tutti quegli scioglimenti, di cui non si parla e che pure tutti noi sappiamo esistano.
Eppure v’è una leggerezza nel testo, merito anche dei disegni di D.Naomi che corrono lungo tutto il testo, che in certo modo tengono lontana la narrazione dal gravame post-apocalittico di una realtà ben più compromessa: se sappiamo che esiste il Pacific Trash Vortex – la grande chiazza di immondizia – al centro del Pacifico (sorella che non c’è in queste idro-lettere nel libriccino di Jacobsen, 64 pagine) altrettanto avvertiamo dalle sorella l’empatia per le creature del mare così soggiogate dalla sciatteria degli uomini, il loro pescare, la loro sozza intrusione, la loro scarsa inclinazione alla ricerca di un equilibrio con gli altri regni.
Di tutto ciò nel libro di Jacobsen non v’è traccia però. L’autrice si ferma sulla battigia e ci restituisce una fiaba di vita e morte. Recita la sua personale litania forse per un mondo in evoluzione, se pur certi scienziati oramai parlano di sesta estinzione di massa per illustrare gli effetti compromettenti dell’azione dell’uomo sul suo proprio habitat, proprio come i virus paradossalmente, nonché sulle altre specie.
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Vi sono infine rimandi ai classici greci nell’epistola-saggio di Jacobsen, come l’etica e la filosofia, Dedalo e Pasifae, possano in certo modo accompagnare l’uomo contemporaneo verso il ritorno a casa: esodo, tempo, desiderio e nostalgia. E ancora più incisiva la chiusura, con un memento alla Pangea da cui tutto esordì, la vita sulla Terra, e a cui tutto tornerà, nel tempo lungo del mondo. 
“Le ali cantano (…) una costa rocciosa grigio argento, campi, più avanti le montagne (…) I piedi sono candidi nel riflesso del sole. Scompigliano la superficie del mare”
Leggiamo infine un’egloga, una poesia, e sembra allora che sia tutto lì, quasi, nei nostri prossimi passi sulla spiaggia. O il prossimo bagno che faremo nei mari, sorelle, oceani.