Sono passati più di due anni dall’uscita del libro di Marco Lupo, Hamburg – La sabbia del tempo scomparso (ilSaggiatore,€21), Vincitore del Premio Campiello Opera Prima nel 2019.
E l’eco di quella storia si fa ancora sentire.
Oggi che ci aggiriamo tra le macerie di un tempo frammentato, esploso, disintegrato: “E’ la stagione dei fuochi. Crepitano sulle colline e intorno ai centri abitati, strisciano tra i boschi, nei castagneti sacri, crescono con il vento che appare e scompare mentre centinaia di uomini si dannano per salvare ciò che non è ancora bruciato”.
Inizia così la storia di questo autore nato a Heidelberg, tra i nomi del collettivo TerraNullius.
Tutto da ricostruire. Rovine di un mondo scomparso.
E non è solo l’aria post-conflitto che si respira, né l’uso di un tempo presente, illineare, coniugato a una speranza futura; il libro-fiume-forbice-carta-cemento di Lupo è una scrittura per affioramento, dove i libri vengono tratti in salvo dai detriti dei bombardamenti (come il devastante attacco che Amburgo subì durante l’operazione Gomorrah), riemersi dai calcinacci. Letti nelle notti stellate, di un mondo allo sfacelo, mai post-Apocalisse piuttosto il basso registro della sconfitta.
“Non erano niente. Sapevano di essere provvisori, inconsistenti, deboli. Cuori che sarebbero stati stroncati molto presto, in una notte qualsiasi, con la sinfonia terribile della città d’estate”.
Le colline di Lupo paiono dorsali appenniniche, le colline per altro usate da Pavese e Fenoglio, le vite parallele dei due scrittori delle Langhe: Lupo è piemontese erede di una letteratura di resistenza singola e collettiva, intrisa d’umanità dispersa, personaggi disciolti come fantasmi, spettri che si aggirano per i boschi di castagni, pietre che scompaiono, anfratti minerali mischiati al catarro dei sopravvissuti. Come nelle tracce di libri scovati dai protagonisti tra le macerie di quel che rimane delle (nostre) città (oggi, a un anno dallo scoppio di una pandemia globale innescata dall’uomo), a quale catastrofe: un virus, le guerre, la stupidità arcana dell’homo homini lupus. La vita, la morte, L’Antropocene.
E’ un crepitio del tempo, questo romanzo non romanzo. Una storia nelle storie, in cui i libri si disintegrano, sono tesoro, scoperta, memoria. In cui la Storia, Hitler, gli americani, Winston Churchill, fotografie vere del secondo conflitto mondiale si mischiano alla fiction. Ed è qui che deborda Hamburg, pretesto per narrare il narrato, aggiungere fuochi, filtri, suoni a un mondo sgretolato e vivo. Nonostante tutto.
Le lettere immaginate di madri che scrivono ai figli al fronte si mischiano alle immagini vere, in bianco e nero, di uomini, cadaveri, bambini tra le macerie.
Eppure non c’è disillusione definitiva nelle parole di Lupo. Non una parola di troppo. Poiché il tempo non è solo il tempo degli uomini: “La pioggia crede nel buio e nel vento, pensa il libraio. Protegge se stessa dai processi naturali, dal sole che la evapora e dalla terra che la riassorbe. Di notte ascolta e sfiora il ricordo delle piogge a cui ha assistito, vortici potenti di acqua e sabbia, tiepide docce improvvise nell’estate che fonde il cemento, linee diritte in cui scompare il mondo di sopra”. La vita è ovunque. Sotto i nostri piedi. Il tempo. Era il 2018 e Lupo, con Hamburg, era come se già sapesse: rocce, acqua, animali, piante, umani. Che il tempo o è collettivo, o è per tutti, o non è per nessuno.