Esce oggi il secondo romanzo di Roberto Venturini, che torna in libreria con, L’anno che a Roma fu due volte Natale (SEM, € 17), il titolo almeno è più corto del precedente.
Un j’accuse sui generis kitsch come la storia di Spelacchio l’albero natalizio di cui le pagine dei giornali si sono riempite per mesi. Questo nuovo lavoro di Venturini è un pastiche in salsa d’abbacchio, sapientemente amalgamato dall’uso di uno slang romano sempre funzionale e mai amatricianamente auto-riferito né posticcio o volgarotto, piuttosto invece Amarcord come i film con Tognazzi, Sordi, Proietti e compagnia cantante (v. sotto il richiamo servito su un piatto d’argento ndr).
L’anno che a Roma è un viaggio spleen sulle coste laziali, un soffio di ponentino che sollevi sabbia negli occhi, bruciando immagini, persino ricordi. Roma, Sandra Mondaini che appare in sogno al protagonista perché la salma di Raimondo Vianello è stata trafugata dal cimitero del Verano; il litorale dove si svolgono i fatti riporta alla memoria Pasolini – i “froci” – le spiagge romane, Er Donna che cucina pesce (chissà come mai?) e Alfreda che non dorme, notti e giorni drive in al Villaggio Tognazzi (l’autore per descrivere quegli anni è andato a intervistare i figli del compianto attore-cult).
Roberto Venturini è un autore con una certa passione per il grottesco, che si potrebbe definire post-moderno-post “generazione Cannibali” – speriamo anche post-covid ndr – romano classe ’83, premio Bagutta per il romanzo d’esordio, Tutte le ragazza con una certa cultura hanno almeno un poster di un quadro di Schiele appeso in camera (SEM, 2017) da cui venne tratta la serie web Tutte le ragazze con una certa cultura, lì v’era un genere forse più brillante a sostenere l’autore ma pure più “scaciato”, allora, scollacciatamente furbo, di questo Roma dove invece Venturini tenta di scavare, armato di secchiello e paletta, nella sabbia polverosa delle coste mangiate dal cemento e lasciate lì a morire, dimenticate.
La strana combriccola de L’anno che a Roma sembra appena uscita da un recital scolastico, da un tour gastronomico, dal “pizzicagnolo” de’ quartiere, i piccoli alimentari di una volta che vendevano provolone, rigorosamente piccante, e dai quali vai per farti tagliare il prosciutto crudo da mettere dentro la rosetta, la mortadella (o Bologna che dir si voglia) e le mozzarelle “Che signora mia!”.
E così la storia prende l’abbrivio da Alfreda che guarda lo zucchero che si scioglie nella tazzina. Solo che qui non c’è Alice che guarda i gatti e, al posto di De Gregori e il 4° piano, ci si immette subito nella sabbia gialla delle coste laziali (che a Roma è un insulto).
Scopriamo che Alfreda è un catorcio eppure passando in barcaccia a Capocotta, con Carlo a Ostia, e poi attraverso evacuazioni più o meno letterarie (cfr. la scena del pollo coi peperoni), Venturini “gaddeggia “e ci porta nelle periferie, nei sordidi anditi e tra le dicotomie di classe, l’autore non lo dice mai eppure lo capiamo che sta dalla parte dei “poracci”, lui che cita Anna Magnani in Mamma Roma, e il cinema anni Sessanta, quella certa vague nostrana in bianco e nero che tanto ha fatto per il nostro immaginario – le commedie amare di Alberto Sordi, Tognazzi in La grande abbuffata – denso d’un’immortalità cercata, nutrita, immorale poiché verace, popolana.
Quel che riesce meno bene a Venturini, forse, è invece il richiamo pecoreccio al marketing di quegli anni, il claim del dado Knorr che ormai è gusto retrò per pochi, e però Er Donna, il travestito più ambito della Pontina, è un personaggio che pare ritagliato per spin-off da Lo chiamavano Jeeg Robot caso esemplare di “eccezionale” – eccezione alle regole del – cinema italiano contemporaneo, diretto da Gabriele Mainetti, di cui ultimamente ha scritto anche Daniela Amenta sulla pubblicazione 30minuti-fotogrammi di storie dell’Istituto Luce Cinecittà.
Nucleo tematico del romanzo di Venturini, dunque: gli alberi pizzuti (i cipressi dei cimiteri), l’erosione del tempo, delle coste, delle relazioni. Ci sarebbe materiale per un’altra serie, in effetti, non necessariamente web, o forse per un finto pasticciaccio, sulla rotonda di Torvaianica però.
Venturini è egli stesso frutto della sua epoca: gioca continuamente con richiami a certi giochi da bar (qui il Bar Vanda) – Street Fighter rigorosamente su Arcade – i sempreverdi Puffi, i pupazzi Masters (of the Universe?), Scooby Doo, lo zaino Invicta; allo stesso tempo, lo stile surreal-onirico si mischia a una certa passione per i fatti di verità e cronaca nera degli ultimi anni, alle gang che ancora oggi occupano il litorale e non solo.
Se nel romanzo si nomina infatti la Banda della Maranella e ‘o Pazzo basterebbe giocare allo Scarabeo dei nomi per trovare al posto degli innominabili quel clan Spada che per anni ha imperversato a Ostia e per i quali pochi giorni fa è stato confermato in Appello il reato di associazione mafiosa, tradotto: 17 condanne e 150 anni di carcere complessivi.
Non si può dire che L’anno che a Roma sia un libro-reportage, o un docu-book, lo stesso v’è nascosta più di una filigrana sottile, un fil noir che compie lo svelamento sul perché la più bella delle città “der monno” sia oggi un’impero in decadenza (e per stessa ammissione dei suoi abitanti) e financo delle serie televisive – a proposito – che non fanno altro che farci vedere e nominare non più una caput mundi quanto, piuttosto una truculenta e infima Suburra mundi.
Della struttura semantica cinematografica, l’autore evidenzia persino la suddivisione del testo in 3 atti, richiamo ulteriore per chi non l’avesse compresa la necessità di una renaissance da grande schermo (come realizzarla questa rinascita del cinema, in tempi di pandemia mondiale certo è tutto da vedere).
Mentre Alfreda sgombera e trasloca con gli immancabili “facchini” rumeni, come nelle migliori stories di Guy Ritchie, e perde il fiato, Roma invece non perde il vizio, la gente continua ad arrivare coi treni da Nettuno, mentre il duo nazional-popolare Sandra e Raimondo (“chebarba-chenoia-chenoia-chebarba”) chiedono a Mario dove andare a mangiare gli spaghetti con le vongole.
Ed è qui allora, in tutto questo residuo di polvere accattona, che gli spiriti se la comandano nella commedia all’italiana di Venturini, gli spiriti di Giulietta però, senza scomodare il teatro di De Filippo, “ma però” sì: Gassman e Mastroianni, per esempio quella volta che Alfreda e Mario li videro di sfuggita mentre si cambiavano per andare a giocare a tennis.
La mala, l’arenile bagnato, con uno stile asciutto (quasi per converso) e sempre apparentemente sobrio, Venturini ci lascia a mollo sull’asfalto dell’Italia che fu, mentre le Madonne Immacolate passano e nessuno aiuta nessuno, nella vita c’è solo egoismo, malinconia, stanchezza, che: “C’avemo già tanti cazzi” da risolvere, insomma, che non si può certo pensare agli altri, con buona pace dei buonisti e dell’#andratuttobene esibiti sui balconi.
Forse nello stile dell’autore di questo ennesimo (impossibile) tentativo di esaurimento del luogo Roma c’è ancora troppa aggettivazione, lo stesso la verve psicopatica, la tendenza alla sociopatia differenziale dei personaggi, fanno scivolare via il romanzo di Venturini a singulti, così ci troviamo di fronte non proprio una linea ma neppure una superficie, allora, l’autore appare più interessato all’apoteosi del sublime (cfr. la scena con Carlo, il figlio di Alfreda, la Makarov 9, Er Mostro vs Er Donna “nel loculo dell’ultima cappella violata”, scritta così equivocamente oscena, e la seguente scena su furgone direzione Castel Porziano).
Tutto è fuga qui, anche la felicità infine. Tra le erbacce tutto si consuma, e tutto ci consuma, succede anche all’ultimo atto.
I ciuffi d’erba sulla spiaggia lasciata alle speculazioni edilizie siamo noi: i nuovi barbari, così pieni di boriosa sciatteria cialtrona, noi e i rifiuti lasciati a terra dopo i pic-nic, non è solo la malavita organizzata ad aver rovinato l’Italia da commediamara, piuttosto sono stati e sono tutti i nostri “e a me che cazzo me ne frega”. La responsabilità è di tutti, nessuno escluso: “Io so i nomi”, ebbe giusto il tempo di dire Pasolini prima di morire. Non c’è redenzione ne L’anno che a Roma fu due volte Natale, e a pensarci bene forse, in effetti, non c’è mai stata. Amen.