Tornare o non tornare a scuola, questo il dilemma

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Non si torna sui banchi di scuola. Forse a settembre.
I più piccoli non si ammalano, o si ammalano poco, pure sono pericolosi vettori di propagazione.
Allo stesso tempo, per non sacrificare i nostri spazi del presente, li stiamo escludendo.
I bambini sono i mai citati. Gli invisibili.
L’interruzione protratta dell’educazione e del connesso correlato di socialità – prima volta dal dopoguerra – persi per sempre. Un trauma che si innesterà su intere generazioni, a noi il guaio di aver adottato questa dimenticanza, ce lo rinfacceranno (qui l’articolo di C. De Gregorio “I bambini non perdoneranno”).
E forse è vero, stiamo ignorando il problema.
La scuola non riapre. La testa sotto terra. La tecnica dello struzzo.
Che individui saranno i nostri figli? Domani. Che preparazione avranno?

Nella migliore delle ipotesi il vaccino arriverà per aprile 2021 (no, intanto non possiamo curarci con i raggi UV né farci iniezioni di disinfettante). Ci sarà poi da produrlo e distribuirlo.
Nel frattempo. Un anno senza scuola. Mesi davanti alle serie TV, torneremo imbolsiti e prossimi al Tso. Lavoro in più per gli analisti/psicologi. Tanto peggio tanto meglio.
Ma per i minori, il buco nero non si riempirà. E la Fisica è Fisica, governa le Leggi del cosmo, mica solo quelle nazionali.
Stiamo schiacciando un’intera fascia d’età per garantirci, dobbiamo saperlo. Stiamo sacrificando loro. Le generazioni che erediteranno la Terra. Gli stessi che negli ultimi mesi hanno scioperato per il climate change (emergenza climatica ndr), hanno fatto pressione sui governi – Greta Thunberg, l’emblema dei Fridays for Future – per dire che così non va, la produzione, il sistema capitalistico ipertrofico, allora bisogna ridurre lo smog, e le polveri sottili – forse responsabili anche della proliferazione/facilitazione nella propagazione dei virus, cfr. studio qui – i millennial, in grado di usare le tecnologie, altro che DaD.
Ragazzi e ragazze che sanno, meglio di noi, l’importanza del mondo interconnesso, la Rete, lo spazio sistemico, la necessità di proteggere il pianeta, nelle sue molteplici varietà, frutto del linguaggio interspecie, il Tutto entro il quale siamo immersi. La vita liquida.
Giovani impegnati nella costruzione di un modello urbano sostenibile. Le città-giardino. Smart cities, green belt. Il ritorno alle campagne come soluzione al secolo delle pandemie. Non si parla d’altro (v. articolo “Via dalle città” di Boeri, qui).
Se c’è una cosa che il Covid-19 sta insegnando al mondo è che nessuno diventa migliore o peggiore. Il virus ti fa solo vedere, se c’è un problema quale soluzione adotti? Come reagisci?
In Danimarca si torna in aula. Le scuole si sono attrezzate con il distanziamento sociale e le lezioni all’aperto. All’aperto. In Danimarca (articoli qui e qui) nonostante paure e dubbi: nessuno può permettersi più di sottovalutare. La questione infatti è la risposta, il porsi la domanda (*ci torniamo sotto, alla voce dubitativa sulle risposte possibili).
Lo stesso, su base volontaria, sta facendo la Francia (da metà maggio). Seguirà il resto dell’Europa del Nord. Ma si sa, i paesi scandinavi sono più avanti degli altri su molti temi: bambini, lavoro, parità di genere, ambiente.
L’Italia è stato il 1° paese europeo ad andare, provvidamente, in lockdown. Per quanto riguarda la scuola, siamo ancora qui. Di fatto, fermi da 2 mesi. Due.
I punti sono molteplici.
Si continua a pensare all’istituzione Scuola in modo granitico, come se nulla fosse cambiato. Lo sforzo è tutto sul ripristino del fare/essere a scuola pre-Covid. Torneremo a come era prima. Ma niente è più come prima: «Nulla si crea (per sempre), nulla si distrugge, tutto si trasforma». Non è uno slogan. È la termodinamica del quotidiano.

Di seguito, alcuni brevi ragionamenti.
1) Una schiera di insegnanti in fascia d’età a rischio, che appartengono a una generazione non totalmente digitalizzata.
2) Mancanza di spazi pubblici adeguati. Come di ponti, che qui da noi crollano, ma questo è un altro discorso se pur la metafora regge.
3) L’università e la ricerca scientifica senza soldi, i cervelli in fuga. La scuola pubblica che avrebbe bisogno di aule attrezzate, oltre la buona volontà di maestre che tutti i giorni inventano un modo con cui impegnare gli studenti nell’unico valore costitutivo di ogni individuo: la cultura (specialistica o linguistica, aziendale o letteraria). Il livello di cultura di un Paese determina la sua crescita, diciamocelo una dannata volta.
Eppure, il cubo di Rubik della contemporaneità è questo. Complesso. Del resto, siamo nel 2020.
Secondo gli ingegneri sociali del Politecnico di Milano tornare a scuola, oggi, è già possibile. Qui lo studio, link. Il PoliMI, al sesto posto al mondo per Arte e Design.
Possibile non vi siano nei nostri comuni spazi da adibire alle scuole? A Milano come nella Maremma amara.
4) Gli/Le insegnanti, li abbiamo sentiti sulla DaD-Didattica a Distanza, divenuta da meta lontana e irraggiungibile fino a ieri, a panacea e pronta soluzione a tutti i problemi di formazione: ma funziona per tutti gli ordini e gradi, indistintamente? Che dicono i docenti? E gli allievi?
Perché probabilmente avremmo feedback diversi.
Alle superiori magari funziona. Gli studenti sono smart. Anche se gli mancherà la vicinanza, per l’altra questione, ai tempi degli ormoni (ma di questo si occuperanno i sessuologi, altro argomento tabù).
Ma per i più piccoli, per le elementari? La presenza digitale è integralmente sostitutiva della presenza fisica? Ha ragione Paolo Rossi, l’attore comico, che nella sua lettera al nipote si domanda se, tra un po’ i più piccoli penseranno che i nonni siano dei nani che vivono dentro un televisore? Oltre alla narcisistica oramai divenuta prassi di guardarsi in video mentre si parla con gli altri?
Oppure, gli studenti delle scuole medie, costretti per ore davanti alla TV di Stato, come nel dopoguerra. Noi adulti che fino a ieri: «Smettila con quel cellulare, ti rincretinisce» adesso siamo i nuovi tecno entusiasti: «La gamification delle conoscenze per avvicinare i giovani (i giovani!) allo studio», li lasciamo a se stessi, per ore. Mentre mamma e papà, in tutto questo, che faranno? Chi lavorerà?
5) Tutti usano Zoom. Zoom è il nuovo orizzonte scuola a distanza. Qualcuno si è preoccupato di capire se la piattaforma è “sana” oppure sono vere le voci relative ai possibili buchi sulle conference call, crackerabili, e suscettibili a rischi pedo-pornografia in rete (qui articolo)? Lo sanno le maestre, o i dirigenti scolastici, si fanno ricerche prima di indire call di classe, con minori?

Si tornerà a scuola a settembre, dunque. Forse (*vedi punto sopra).
Davvero è tutto qui quel che si può immaginare? La domanda – forse – è lecita.
Sono stati fatti tutti gli sforzi, si sono messe in campo tutte le valutazioni rischi/benefici? Questo è il massimo possibile ottenibile con i singoli fattori del Grande Algoritmo?
I governi, i policy maker devono approntare soluzioni complesse (v. Danimarca, Svezia, cfr. studio del PoliMI sopra). Ed è tutto qui il punto.
La tutela E il diritto allo studio.
La formazione E la salute.
Dobbiamo uscire dalla società dell’aut aut. Finanziare la Salute E la scuola.
Entrare in una nuova fase.
È finita l’epoca delle facili prese in giro, dei negazionismi de noantri, i pan-nazionalisti: fino a ieri, se qualcuno avesse previsto (video Obama, Bill Gates nuovo bersaglio dei complottisti): “Una pandemia bloccherà il mondo”, “Non è possibile”, avremmo risposto. La mente oppositiva.
Fino a che è scoppiato il virus.
Oggi dobbiamo imparare a immaginare il prossimo futuro, le nostre vite-congiunzione. A distanza.
Pure, forse, non dovremmo riprodurre gli stessi schemi del passato.
Il virus ci dice che il rischio c’è ma possiamo modificarci.
Adattarsi, regola base dell’evoluzione, non restare in stand by.
Il mondo cambia, non aspetta primavera. E se è per questo – a parte i tecno-entusiasti – neppure più noi.