“Eat me, drink me” il nuovo album dei Mammooth

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Una lunga intervista ai Mammooth, gruppo electro-rock romano, in occasione del nuovo album Eat me, drink me. E, in anteprima esclusiva per Nòva fino al 13, il video del nuovo singolo Poem, regia di Dario Cioni, un video on the road che sembra ispirarsi alle suggestioni notturne del film Drive.

Una chiacchierata con i due leader storici del gruppo: Riccardo Bertini (voce, chitarra elettrica) e Fabio Sabatini (tastiere, pianoforte e synths).
Nuove canzoni per una nuova formazione, collaborazioni internazionali, le città più cool dove vivere e fare musica oggi, la necessità dei mutamenti, i libri di Emanuel Carrère… questo e molto altro, in attesa che la musica dei Mammoth divenga colona sonora del prossimo film di Tonino Zangardi, L’esigenza di unirmi ogni volta con te, in uscita il prossimo 24 settembre nelle sale italiane (i Mammooth avevano già fatto la colonna sonora del precedente film di Zangardi, Sandrine nella pioggia ndr).

Un disco dopo cinque anni: molti cambiamenti, innesti, musicisti nuovi: cos’è “mutamento” per i Mammooth?
«La vita è (…) cambiamento, ma soprattutto non ci sarebbe vita senza mutamenti. Chiunque svolga attività artistiche lo sa perfettamente. Solo un continuo rigenerarsi e rimettersi in discussione tiene alta la creatività. Abbiamo fatto scelte a volte dolorose, abbiamo lavorato sul corpo di questa “non–band” per renderlo più al passo con i tempi, più snello. E poi invecchiando si diventa inevitabilmente più saggi soprattutto in relazione al tipo di sound che vuoi produrre, al tipo di storie che vuoi raccontare. Non abbiamo più dubbi su cosa e come debba suonare Mammooth sia su album, sia dal vivo. Abbiamo scelto una formula sonora che, pur restando un melting pot di stili differenti, ha alla sua base i beats elettronici. Non abbiamo più dubbi rispetto al passato e sicuramente l’innesto di una donna – Cristina – più giovane di noi, dai gusti orientati ai nuovi sounds, ci ha aiutato molto a trovare questa direzione “definitiva” al nostro suono».

Nel disco oltre a direzioni nuove ci sono molti artisti internazionali, quanto è importante lo sconfinamento per essere musicisti nel 2015, uno dei periodi peggiori della storia della musica e non solo?
«Paradossalmente crediamo che proprio i momenti di crisi siano quelli in cui la creatività raggiunga il suo apice. Credo che questo accada sia a livello individuale sia a livello sociale. Più tenti di comprimere, schiacciare, controllare e più le cose sfuggono. Avremmo potuto essere “mediocremente saggi”, guardare il fondo del pozzo e dirci «È finita», ma su di noi questa pressione ha avuto esattamente l’effetto opposto. Questo senso della “fine imminente” che si respira da troppi anni nell’industria musicale, dell’ignoranza e del cattivo gusto elevati a prodotto culturale non ci andava e non ci va giù. Non ci arrendiamo all’idea che debba per forza essere così. E allora certo “sconfiniamo” sia musicalmente che geograficamente cercando collaborazioni con artisti propensi alla sperimentazione al mescolamento. Ricordo ancora i grandi sorrisi di Anna (Lidell) mentre cercava di dare la migliore interpretazione su Rain on me o Kate che dopo una cena, tanto alcol e mille chiacchiere sulla vita ci ha regalato la take perfetta in tre minuti per The Liar. Anche con il violinista Andrea Di Cesare è successa la stessa cosa per Girl In The Well, anche lui è uno a cui piace sperimentare, e sconfinare. Credo che ci piaccia immaginare che la nostra musica sia senza confini. Appena possiamo chiamiamo sul palco musicisti di estrazioni diversissime e ci divertiamo come pazzi a giocare con le loro peculiarità».

Poem (cover)
Quali sono i vettori principali di questa modernità. Cosa vi interessa raccontare?
«Noi per primi abbiamo definito il nostro suono post-moderno o, meglio ancora, contemporaneo. Una sintesi personale, soggettiva della “babele di suoni” di questi ultimi anni, basata sui nostri gusti musicali. In questo senso ci interessa raccontare il futuro, ci piacciono le musiche di confine dove generi diversi si mescolano creando suoni inaspettati. Eat me, drink me è solo l’inizio di questo viaggio. Una volta capita la formula vogliamo imbastardire la nostra musica sempre di più prendendo a esempio altri artisti europei, che lo hanno fatto prima di noi: il genio Damon Albarn o le splendide collaborazioni tra Africa ed Europa. C’è tutta la musica medio orientale e orientale da esplorare, campionare e con cui mischiarsi. Quello che ci interessa raccontare è il mondo per come è oggi: un luogo complesso, meticcio e bastardo nel senso più ampio e alto del termine. Questo ovviamente si riflette anche nei testi. Nell’album si parla di downshifting, di nuovi animali sociali, di coppie allo stallo isolate in città senza il senso della comunità».

Le vostre musiche diverranno di nuovo colonna sonora per il prossimo film di Tonino Zangardi: l’immagine è fuoriuscita dalla realtà ma anche i suoni, che sfida è il cinema per un musicista?
«Credo che sia le immagini che i suoni siano semplicemente un altro modo o, se vuoi, un modo “personalizzato” di raccontare la realtà più che una fuga da essa. Per noi, parlo di me e di Fabio (fondatori del gruppo ndr) che abbiamo sempre scritto per le immagini risulta abbastanza semplice pensare a una musica per una sequenza. Trovo infinitamente più difficile scrivere una canzone. Ci piace l’idea di influenzare il montaggio della scena di un film perché la nostra song o il nostro pezzo ha un certo mood o un certo tempo. Per il film di Tonino si è lavorato sia in questa direzione che nell’altra, che poi è la composizione pura sulle immagini già montate. Io e Fabio naturalmente preferiamo la seconda. L’idea di immergere le immagini nella musica che tu e solo tu hai pensato è meraviglioso. La musica ha il potere di cambiare, arricchire, in alcuni casi persino distruggere il lavoro di montaggio. Credo che tra le tante cose che abbiamo realizzato la musica per il cinema o più precisamente per le immagini sia ancora oggi il nostro chiodo fisso».

Quali sono i vostri riferimenti letterari?
«Se vuoi sapere cosa leggiamo o abbiamo letto che ha dato forma alle nostre ossessioni musicali provo a risponderti. Ultimamente ho una venerazione incontrollabile per Emanuel Carrère. Uno dei pezzi dell’album è una super sintesi del suo libro L’avversario. In questi giorni sto leggendo Il regno: un’indagine letteraria, non saprei come altro definirlo, dedicata alla storia dei primi cristiani. Ma dentro la nostra musica ci sono anche Philip K. Dick, Jonathan Franzen, Bohumil Hrabal, Fëdor Dostojevskij, Pier Paolo Pasolini, Joe Lansdale, Martin Amis e naturalmente David Foster Wallace».

Dove andreste ad abitare oggi, artisticamente parlando, e perché?
«(…) Montreal, Berlino, Londra, New York o dovunque la musica sia trattata come un vero lavoro da gente professionale e capace che sa cosa va fatto e come. Questa è la risposta piccata del musicista che ha affrontato “di tutto e di più” in questa nazione assurda, servile, familistica (…). C’è invece una risposta del cuore che preferiamo alla prima. Pensiamo che in realtà Mammooth sia una sorta di casa galleggiante, un camper da potersi portare dietro a prescindere dal posto. Potremmo davvero abitare ovunque o in nessun luogo specifico rimanendo noi stessi e continuando a migliorare ed espandere il nostro linguaggio musicale, che è essenzialmente un linguaggio delle emozioni. A noi è sempre interessato emozionare chi ci ascoltava, poco importa dove o chi».

I Mammoth sono:
Riccardo Bertini (voce, chitarra, synth, loop)
Fabio Sabatini (tastiere, synth, loop)
Cristina Carlini (percussioni, loops, batteria elettronica)
Puca Jeronimo Rojas Beccaglia (basso elettrico)

Eat me, drink me è un album prodotto da MArteLabel, progetto di cui abbiamo parlato qui; missato e masterizzato a Londra da Manolo Remiddi.

Date, info e concerti:
www.mammooth.net
www.martelabel.com