l’uomo d’argento

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Potrebbe essere uscito da un sogno di J.G.Ballard, una città senza nome in un futuro senza speranza dove si va per dimenticare, lavoro cose persone impegni, una realtà onirica dove i personaggi non abitano, tutt'al più finiscono di smarrirsi e dove l'unico modo per resistere è rimanere fermi, immobili, senza scegliere, e pitturati d'argento.
E' appena uscito l'ultimo romanzo di Claudio Morici, L'uomo d'argento (E/O, euro 16), veloce in presa diretta trionfo dell'uomo a una dimensione senza pietà.
Morici, dopo l'esilarante j'accuse contro il mondo-precario-tecnologico (Actarus. La vera storia di un pilota di robot, Meridiano Zero) e il viaggio (La terra vista dalla luna, Bompiani) ci immerge in una supercittà dove gli "appenarrivati" dal mondo – ancora –  "normale": lavoro, casa, relazioni sbarcano con la terra promessa di poter dimenticare, obnubilati dallo sballo continuo, da un tempo immoto scandito da festini, cocktail e sesso anonimo a consumo.
Il protagonista si immerge sempre di più in una realtà alienata, dove i suoi coinquilini armeggiano con i giorni come se fossero ingredienti sballati, tutti sono soli fingendo solidarietà e dove l'unico uomo che sembra possa salvarsi dal delirio insensato di giorni tutti uguali, di una città che non si vede, ma si percepisce come "generatore di dimenticanza", è appunto l'uomo d'argento – una sorta di barbone che se ne sta fermo, sulla sua panchina, a guardare il mondo senza farlo neanche presente; presenza immota egli stesso, priva di interesse. E' a lui che il protagonista di Morici tenta di somigliare per tutta la narrazione ("il Maestro" lo chiama nei suoi deliri, che si fanno a poco a poco sempre più consapevoli). 
Ma non c'è scampo ne L'uomo d'argento, nel suo tratteggiare i paradossi della nostra società – l'alienazione, la scarnificazione dei rapporti interpersonali, l'egoismo egotico, la paura di tutto sublimata nello sballo costante, l'inadeguatezza mascherata da frustrata funzione sociale – tutto nel romanzo di Morici emerge, viene a galla, shakerato, mixato, frullato in un beverone difficile da riconoscere: è la Società Schizofrenica del Consumo, che vive per lavorare (invece che lavorare per campare dignitosamente). Una società senza più possibilità di avere lucidità, allora, frutto al massimo di una dimensione "privata" con le cose e non più pubblica, perché deprivata (e a volte, persino depravata, ma come accessorio, neanche come malattia).
Non basta neanche l'amore però a salvare il protagonista, anzi nel suo deliquio ossessivo, l'amore sfugge, è qualcosa di più grande, che confonde le ragioni con le apparenze, al limite è un problema da risolvere con l'aiuto degli ospedali e dei dottori- figura onnipresente in Morici, il "dottore" che dovrebbe essere in grado di curare e invece è peggio dei suoi pazienti.
Manca un po' la descrittività nell'Uomo d'argento, forse. Le strade della città dell'oblio organizzato, l'aria che si respira, le persone senza identità, i volti netti invece che quelli appena accennati, tutto sommato, dello strano armamentario umano che sta intorno al protagonista-senza-identità del romanzo di Morici, quella strana combriccola dove Jenny, la tedesca, il campione di arti marziali spagnolo, la messicana cicciona, la francese, l'australiana (quasi figure da barzellette con l'inglese, l'italiano, etc etc) si sopravvivono in questa storia da "Paura e delirio a Las Vegas".
Esilaranti i passi di rapporto ideale-idealizzato, invece, con il Maestro. Verve ipercritica apodittica nei confronti di chi si crede rivoluzionario, i tizi che occupano il locale più in voga della città senza nome di Morici, alla fine diventano essi stessi "fancazzisti" dediti all'alcol, allo svago come "mission", oltretutto boriosi e pieni di sé e dei quattro concetti in croce che pensano di conoscere e con i quali giocano – al massimo – a fare i rivoltosi (che non se ne può più del concetto di "rivoluzione" che ormai tutti fanno rivoluzioni, almeno in passato si sono fermati a 3: Francese, Industriale, d'Ottobre).
E allora, rimane solo pitturarsi tutti d'argento, dunque. Fermi, ad aspettare. Che passi tutto, questo inutile scorrere. Questo finto piano in cui abbiamo tutti delle cose da fare. Ma cosa?
Aspettare dunque. Aspettiamo il prossimo libro di Morici! Sulla buona strada per trovare il libro-chiave di questi anni. Da qui a qualche anno. Per ora, seduti su una panchina al parco, ad ascoltare le voci dei bambini, i cinguettii degli uccelli, l'aria buona e il cielo. Altro che multitasking…