Un viaggio alle Faroe è il motivo che conduce Jack Halberstam – direttore dell’Institute for Research on Women, Gender and Sexuality della Columbia University – a scrivere questo suo Creature selvagge (minimum fax, trad.it. Goffredo Polizzi, 20 euro), sottotitolo Il disordine del desiderio.
Le premesse sono una radicale fuoriuscita dal concetto, romantico, occidentale di quel che chiamiamo “selvaggio”.
Attraverso una serie di riflessioni a metà fra il pop e il serio, il sacro e il faceto, Halberstam ci fa vedere l’altro lato dell’interpretazione del mondo. Cosa è selvaggio, infatti? E cosa non lo è? E ancora. Quali sono i confini che perimetrano i nostri comportamenti, compresi quelli sessuali, per certi versi propri della nostra razza, e della nostra specie mammifera. Quanti siano i livelli di costruzione, i riferimenti sulla realtà, per meglio dire nella post-realtà del nostro tempo effimero e social, fluid e post-naturale.
Il testo analizza il contesto entro il quale si muovono i nostri corpi, le premesse coloniali di un Occidente in prolungata agonia del desiderio, sublimato per mezzo delle merci.
Il selvaggio, per noi, continua ad assumere connotati esotici, di conquista, titilla il nostro ego universale figlio dell’Illuminismo che così tanto ci ha giustificati nel compiere le peggiori nefandezze, fra tutte, il “paganesimo” dei nativi a cui abbiamo prontamente risposto, nei secoli, con la soggiogazione dell’altro, altresì detta – retorica dell’alienazione – ovvero, la schiavitù.
Halberstam passa in rassegna la poesia di Yeats e la musica di Stravinskij, Thoreau, Foucault – e la sua ontologia selvaggia – il disordine, Eliot, la teoria queer, la natura dopo la Natura, un falco pellegrino che si libri, libero, in volo sopra i cieli delle proprie convinzioni, infine il nostro ruolo nel più ampio territorio della contemporaneità.
Se però certa letteratura (come l’à rebours di J.-K. Huysmans) ha teso a guardare alle “devianze” comportamentali come norma, ecco che proprio attorno a questo concetto si coniuga e mette a fuoco una lucida analisi di ciò che sia, per noi, oggi, “normale”: quale il limite ontologico e prospettico della contemporaneità, l’idea stessa di Natura, e della collocazione spazio-temporale della specie homo ai tempi dell’Antropocene, e ciò Creature selvagge lo fa attraverso l’analisi, diremmo, del desiderio nel suo doppio significato di “mancanza” e “tensione”.
La solitudine, il tratto spaventosamente antieroico dell’individuo del XXI secolo fa da contraltare a una classificazione operata dalla Storia, chi siamo?, ci chiede l’autore attraverso le pagine, per meglio dire, Chi siamo? E cosa, soprattutto?
Ecco che il regno degli oggetti dispone il tempo presente, l’umanità ridotta a “cosalità” dalla sua smania positivista – “è vero solo che è misurabile, e tecnologico” – ha dimenticato l’an-archivio del selvaggio, il fatto che la vita non è imbrigliabile, la nostra tutta una corsa a fare opposizione all’entropia che, viceversa, regola tutte le forme di vita sul pianeta, anche, anzi a maggior ragione, le sconosciute.
Halberstam ci porta sul precipizio per il solo senso di farcelo vedere, perimetra il nostro sapere al solo scopo di farci vedere l’infinito baratro dell’insondabile, il vuoto è molto di più del pieno, ci dice. Ci basiamo troppo spesso su un’auto-indulgenza che parte, però, da premesse parziali; ce ne dovremmo ricordare quando giudichiamo (ovviamente male) gli altri. Del resto, siamo o non siamo la social società del dislike?