L’avidità del capitalismo. Terre distrutte e deforestazione. Vendita di legname prezioso, di boschi primordiali (i fratelli Grimm) a prezzi alti ai migliori offerenti. Villaggi bruciati, contadini e indigeni, fuori dalle palle.
Animali allevati al solo scopo della riproduzione merceologica. Polli in batteria, bovini agli anabolizzanti, pulcini gettati vivi dentro macchine tritatutto. No, non è il “worst case scenario” di un libro di Jeff VanderMeer. Non è neppure Kurt Vonnegut nel suo Mattatoio n.5, o La crociata dei bambini, il bombardamento di Dresda, i campi di prigionia.
E’ l’ultimo romanzo di Deb Olin Unferth, Capannone n.8 (Edizioni SUR, 18 euro, trad.it. Silvia Manzio), osannato da The New York Times Book Review, Los Angeles Times, The Guardian, ha ricevuto l’endorsement di uno dei massimi scrittori americani, quel Georges Saunders che con Lincoln nel Bardo ha spostato un po’ più in là la forma-romanzo contemporaneo.
Unferth autrice americana (Chicago 1968) è stata finalista al National Book Critics Circle Award, pubblicato anche racconti su Granta, il mitico McSweeney’s, Paris Review, insegna all’Università del Texas ed è la fondatrice di Pen-City Writers, master in scrittura creativa per detenuti in carcere di massima sicurezza.
Questo tanto per inquadrare il perché una scrittrice di romanzi dovrebbe, oggi, poter dire qualcosa sul sistema socio-economico che ci scricchiola intorno, e ovunque, e che appassionati storici ed economisti indicano come uno degli snodi più importanti del presente, e per il futuro del genere umano.
E questo che si sia autori, come Deb Olin Unferth, panettieri, meccanici, marinai, greci, afro-americani, gay lesbian bisexual transgender fluid, asiatici, provinciali, campagnoli o urbani. Cosa vogliamo fare, mondo, pare dirci con questa favola surreal-postmoderna Unferth: ci vogliamo salvare o no? Bene. Allora, fatela finita. Anzi, fate evadere subito le galline dai campi di lavoro e morte entro i quali, come in un incubo fordista, le creature – un tempo del Signore – oggi non facciano altro che vivere, male, campare, produrre, crepare, per reggere il bel sistema economico degli umani.
Davvero l’uomo è tutto qui?, domanda in subordine di Capannone n.8 ai suoi lettori, il genio chiuso in scatolette di latta?
Per produrre un chilogrammo di carne bovina, per esempio, servono 15.000 litri di acqua, mentre l’allevamento di vacche da latte “richiede il 72% di acqua in più rispetto a quella utilizzata per produrre latte di soia”. Mangiando solo alimenti di origine vegetale – o riducendo a “0” il cosiddetto Mcconsumo – la nostra impronta idrica verrebbe ridotta di quasi il 60 percento (qui il Report per la giornata mondiale della Terra). Qui il Report ONU sull’effetto serra prodotto dagli allevamenti intensivi.
Ed è proprio qui che Unferth mette il dito nel presente con una storia surreale, onirica, sfacciata e turbolenta. A partire dal preambolo: “Un nido. Composto di reti in acciaio galvanizzato da due millimetri di spessore, venticinquemila abbeveratoi, un muschio di piume e becchime. Dieci chilometri di mangiatoie che corrono su e giù in righe e colonne. Una serie di piani sfalsati sovrapposti fino a tre metri d’altezza a formare la lettera A, simbolo universale della montagna. Travi di legno e compensato. Il buio. Poi di colpo la luce. Trecentomila occhi preistorici che si aprono confusi. L’intero impianto che ronza e ticchetta e sferraglia come un ingranaggio apocalittico. E sopra il brusio, il ciangottio, il canto di centocinquantamila uccelli all’alba”.
Stile asciutto, frasi secche. Immagini e sicretismo, la scrittrice americana passa quindi alla storia di Janey che scende dal pullman, Chicago come Unferth, e il fantasma di New York, le gambe molli ogni volta che cambi lavoro, città, amore. Unferth usa parole a stiletto, si incunea cristonando, senza dissimulazione né frasi retoriche, indossa panni sciatti se serve, tutto per la memorabilia che siamo, gli istanti che ci hanno portato qui. Ma non c’è romanticismo nei ricordi (“In altre parole sua madre (quella stronza!) le aveva mentito.”). I dialoghi serrati, scritti come su un copione di Woody Allen, Unferth scherza col fuoco della scrittura relegando la sacralità al gesto della vicenda, scompare tra le pieghe di ciò che scrive, il tema è più importante. Janey, dunque. Janey che arriva e non ci sono violini ad aspettarla. Solo calci in culo, suo padre, lei da bambina, lei da grande, Janey che è in ognuno di noi, piccoli folli insignificanti esseri umani sul pianeta che pure quanti danni facciamo, agli altri e noi stessi. Se solo smettessimo di credere d’aver ragione.
La sovversione, e la ragione, e il sentimento, accadono in questa storia quando la vera J – e noi, Janey, geni, dove siamo finiti?, cosa ne è rimasto di noi, in fase adulta, dei sogni che non governavamo neppure da bambini? E di qui allora si comprende il perché del gesto di Janey, tra poco.
Fino a che la nuova Janey incontra Cleveland, per meglio Olivia Flores, sociofobica, che improvvisamente viene promossa responsabile delle ispezioni degli allevamenti di ovaiole in tutto l’Iowa.
Ed è qui che si consuma il colpo di genio di Unferth, lo smacco alla società contemporanea malata di app-ismo, tecno-entusiasmo (che cazzo c’avrete da sorridere?), socialization al posto di birra e patatine al pub.
Unferth gioca sul ruolo dell’efficienza, americana ma è un modello che sappiamo esportato. Come fece l’altro autore americano che passò un anno dell’Agenzia delle Entrate del suo stato, David Foster Wallace che appuntò tutto nel suo libro-monstre Il re pallido, illustre precedente morto suicida (come l’altro genio accelerazionista inglese: Mark Fisher autore del saggio-cult Realismo capitalista).
Quel che viene in mente dunque alla nuova J e alla sua amica Cleveland Smith (?) è sabotare, sovvertire l’ordine precostituito degli allevamenti-lager dove le galline invece che mangiare vengono ingrassate, e i pulcini invece di crescere vengono triturati in attesa della cena, come voleva fare la strega di Hansel e Gretel.
Dialoghi surreali del tipo:
Dove hai preso quella gallina? Dovrebbero farti causa per incuria.
Di fatto adesso è vostra.
Col cazzo che è nostra. E’ un errore concettuale tipico della nostra specie quello di credere che una creatura vivente possa essere di proprietà di qualcuno.
V’è persino un che di religioso, nel romanzo di Unferth, nel senso primordiale del termine sacro. Sacer, bosco. Gli animali sono esseri vivi, viventi, vividi. I loro occhi, le loro ali, i polli. No, non sono nostri, né dei nostri forni. Scorrazzano, vivono, esistono sulla Terra da millenni. Solo si sono evoluti, come noi, ma senza la spocchia della punta della piramide.
Questo è un libro divertente e profondo, psicologico e sperimentale assieme. Dove i capannoni (4,5) sono le zone non libere delle nostre esistenze. E oggi tocca alle galline, domani agli uomini, ieri agli ebrei, dopodomani a chi?
Il mondo non è una gabbia sembra dirci Unferth, e pure laddove lo fosse, allora, basta tagliare la corda. E la Rete.
Capannone n.8 (www.edizionisur.it) di Deb Olin Unferth chiude con un finale liberatorio. Poiché questo è l’uomo, un animale libero fra gli altri animali liberi. Terra in omaggio, in prestito dalle future generazioni.